Ha aspettato la fine dei controlli giornalieri. Ha scambiato due parole con un infermiere e ha guardato gli agenti e il personale allontanarsi dalla cella. Poi, una volta rimasto solo, si è tolto la maglietta intima e l’ha trasformata in un cappio da legare alle sbarre della cella. Così un uomo, un italiano di circa 50 anni, si è tolto la vita all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dove era rinchiuso da tempo. È successo nei primi giorni di gennaio, almeno due settimane fa, anche se la notizia è emersa ed è stata confermata solo in questi giorni.

Un caso che va allungare una lista nera, composta di suicidi e tentativi di togliersi la vita, ma anche di gesti di autolesionismo, aggressioni e incidenti, nel peggiore dei casi mortali mortali. Proprio mentre il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, assicura la chiusura di tutte gli ospedali psichiatrici (ne sono rimasti sei in Italia, per 780 persone), entro marzo 2015. In quest’ultimo suicidio di Reggio Emilia, a fare la differenza è stata una manciata di minuti. Quando l’uomo si è legato la maglietta intorno al collo era sera e il personale si era appena allontanato dalla cella. Sono stati chiamati medici del 118, che però non hanno fatto in tempo a salvarlo e a rianimarlo.

Secondo Michele Malorni, segretario provinciale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, si tratta di “sfortuna, non di sconfitta”. Oggi nei sei reparti dell’Opg di Reggio Emilia sono ricoverate 142 persone (fino a qualche anno fa erano più del doppio), tutti uomini. Ma di questi sono trenta quelli sistemati nel reparto di stretta sorveglianza, guardati a vista 24 ore su 24, e sempre accompagnati negli spostamenti anche dalla polizia. “La struttura del carcere, con le inferriate e le celle, non è adatta a tutti. Alcuni di loro, quelli che si dimostrano più aperti al dialogo e più collaborativi, dovrebbero essere sistemati in ambienti diversi, dove possano essere curati e riabilitati. Vanno pensate soluzioni alternative”.

Spesso, chi lavora dentro l’Opg deve gestire situazioni al limite, momenti complicati e delicatissimi. Dentro ci sono persone che non solo soffrono di disagi psichici, ma spesso hanno un passato di reati, talvolta violenti, alle spalle. Lo stress è tanto. Chi sta dentro deve far fronte a gesti di autolesionismo, occuparsi di pazienti che ingeriscono oggetti o prendono a testate le pareti della cella. Aggressioni ed esplosioni di rabbia sono all’ordine del giorno. Il Sappe da tempo chiede il superamento del sistema dell’Opg, ma anche strumenti più adatti all’interno degli istituti e maggiori tutele per gli operatori. “Per i soggetti più pericolosi è necessaria la contenzione fisica e chimica, con i sedativi. Abbiamo bisogno di una camera di decompressione, con pareti morbide. E di un letto di coercizione per coloro che danno in escandescenza. Questo anche per il loro bene, e per tutelare gli operatori e chi lavora”.

L’episodio di Reggio Emilia riapre la finestra sul caso degli Opg, una storia tutta italiana, fatta di rinvii e continue proroghe. Nel 2012, dopo che un’inchiesta dell’allora senatore, Ignazio Marino, aveva rivelato le condizioni di vita disumane all’interno degli Opg italiani, la commissione giustizia aveva dato il via libera alla chiusura definitiva entro primavera del 2013. Al posto degli Opg dovevano essere realizzati le Rems , ossia residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, in capo alle Asl regionali. Strutture di cui per ora non si vede nemmeno l’ombra. Anche perché dal 2013 a oggi, ogni anno, il termine è stato spostato di 12 mesi, con relativi promesse e annunci. L’ultimo è di pochi giorni fa. Quando il guardasigilli Orlando ha assicurato il “superamento del sistema del Opg” entro cento giorni.

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