Arrivo a L’Aquila una domenica di dicembre, pochi giorni prima di Natale. Alla stazione degli autobus di Viale Collemaggio, a sud della città, ci sono quattro gradi in meno rispetto a Roma, un’aria più rarefatta e profondo silenzio. Lungo via Strinella, un brutto stradone che cinge a est il centro de L’Aquila e lo separa dal cimitero, ronza pigra qualche macchina. Sul marciapiede sporco di rifiuti due signore anziane camminano verso casa, reggendosi a vicenda. Chiedo indicazioni per il centro e mi viene indicata una scalinata ripida con in cima un arco di pietra, una delle porte d’accesso alla città.

Su corso Vittorio Emanuele c’è poca gente. Tutti aquilani, nessun turista. Quasi nessuno di chi passeggia ogni giorno su questa via si ferma più a guardare la carrellata di fotografie appese ai lati della strada, quelle scattate poche ore dopo il terremoto e quelle alle 309 bare sistemate una accanto l’altra. Cinque anni e mezzo dopo la notte del 6 aprile 2009 la città è ancora a lutto ma se si guarda L’Aquila dal corso, la via delle banche e dei negozi, la situazione non sembra drammatica. Questi palazzi sono stati i primi ad essere ricostruiti dopo il terremoto, nella speranza che la ripartenza del lavoro facesse da volano per tutto il resto. Anche in Piazza del Duomo, una delle poche accessibili subito dopo il terremoto, i bracci delle gru che si stagliano contro le montagne restituiscono l’immagine di una città ferita che lavora per rialzarsi. Basta però spostarsi di poche decine di metri in ogni direzione per capire che l’Aquila è ancora un non luogo.

La zona rossa, il reticolo di strade, piazze e palazzi dichiarato inagibile dopo il sisma, è un paesaggio lunare costellato di pietre e crateri. Se una facile similitudine può servire a rendere l’idea, si ha l’impressione di trovarsi in una città bombardata. Le palazzine di tufo che ospitavano bar, taverne e negozi sono ridotte a stamberghe puntellate coperte da tendoni che sembrano sudari scossi dal vento. Le case che accoglievano gli uffici di commercialisti, medici e avvocati; gli studi di design, i saloni dei parrucchieri e gli empori sono loculi vuoti, con le ante delle porte scardinate tenute insieme da catenacci. In questo intrico di edifici che era il cuore antico, prezioso ma malandato dell’Aquila, non esiste forse una sola finestra che quella notte non sia esplosa e un solo muro che sia rimasto integro.

Di macerie tante ne sono state portate via e tante ancora ne restano ai lati delle strade e nelle case, quelle che potevi lasciare la chiave nella toppa della porta perché non entrava nessuno e in cui oggi non ci sono più neanche i proprietari. 50mila aquilani sono rientrati nelle proprie abitazioni, quelle meno danneggiate e più periferiche, ma altri 22 mila aspettano ancora una (vera) casa. Buona parte di questi abitava proprio nel centro storico, in cui prima del terremoto vivevano e lavoravano migliaia di persone. Oggi che l’80 per cento dei suoi edifici è inagibile ce ne sono rimaste poche centinaia.

I lavori di ricostruzione nella zona rossa avanzano, ma a rilento. Aumenta, anche se lentamente, il numero delle chiese restaurate tra cui la Basilica di Collemaggio, resturata grazie a un grosso contributo economico dell’Eni. Stesso binario per gli edifici di maggior valore storico artistico, per i quali è stata definita una gerarchia di ricostruzione: tra quelli agibili ci sono Palazzo Cappa-Camponeschi, palazzo Ardinghelli, e palazzo Antinori. Un piccolo, importante segnale di rinascita l’hanno dato anche la costruzione dell’Auditorium progettato da Renzo Piano, donato dalla Provincia Autonoma di Trento e costato 7 milioni di euro e il recupero, grazie al Fai, di uno dei simboli della città, la fontana delle 99 cannelle.

Di soldi ne sono arrivati tanti, tre miliardi per l’emergenza, e altri sei ne arriveranno per la ricostruzione, ma l’entità del danno prodotto dal sisma è tale che ci vorranno anni prima che la città riacquisti un’identità.

La situazione più drammatica resta quella delle abitazioni private. 15 mila persone vivono ancora fuori città, nelle new town del progetto Map e di quello c.a.s.e.. Quest’ultimo si è tirato addosso una valanga di critiche perché troppo costoso, progettato male e perché ha trasformato delle soluzioni abitative temporanee in definitive. Il risultato è che migliaia di famiglie hanno un tetto sulla testa ma il vuoto pneumatico intorno. A sentire gli aquilani, soprattutto i più giovani, il nulla che circonda le new town di Bazzano, Preturo, Arischia e Paganica, senza un cinema, un teatro, né un punto di aggregazione sta creando rassegnazione ed escapismo, come viene spiegato in questo articolo pubblicato su Panorama.

Intanto il cratere, come gli aquilani chiamano la zona rossa, aspetta di essere riempito. L’area che circonda il Palazzo del Governo, uno dei simboli mediatici del terremoto, è sigillata ma basta farsi spazio tra le maglie della recinzione per entrare. Il Palazzo è ancora inagibile. Le colonne doriche all’ingresso sono fasciate da rafforzi e circondate da impalcature. Una volta terminati i lavori, la struttura antica dell’edificio dovrebbe integrarsi con nuove costruzioni. All’ingresso c’è una stella cometa spenta. Le lettere che formano la scritta “Palazzo del Governo”, che il terremoto ha quasi staccato dal frontone, sono state tutte allineate.

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