“La pittura può cambiare le cose in punta di piedi”. Gino Pellegrini, morto la scorsa notte a 73 anni all’ospedale SS. Salvatore di San Giovanni in Persiceto (Bologna), non poteva che essere ricordato così, con una frase detta sottovoce un giorno d’inizio autunno, senza eccessi e proclami, solo con quella naturale normalità dell’artista che con una goccia di colore, con un’idea visiva improvvisa illumina il presente e lascia traccia di sé nel futuro. Certo Pellegrini, vicentino d’origine (13 agosto 1940), era stato ad Hollywood, aveva lavorato come aiuto scenografo nei più importanti set cinematografici degli anni sessanta: Gli Uccelli di Alfred Hitchcock, West Side Story, Hello Dolly, Indovina chi viene a cena, Mary Poppins o le serie tv di Star Trek e Bonanza, ma soprattutto “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick. “La mia esperienza arriva da lì”, raccontava, “dove c’erano i fondali, oggi sostituiti con elettronica”.

Gli aneddoti del ritmo di lavoro elevatissimo sul set kubrickiano si sprecano, ma più di tutti quello che impressionò Pellegrini su quel set fu quando gli chiesero di ridipingere continuamente le nuvole per il modellino – un metro per un metro e mezzo – della “Terra vista dalla Stazione Spaziale”: ad ogni nuova inquadratura Kubrick la voleva diversa come per far capire che le nuvole si fossero mosse”. “Nel mio spettacolo teatrale Detector, Gino era in scena con me e mentre recitavo la storia lui, scenografo estemporaneo, sul fondale alle mie spalle di sette metri per tre disegnava in tempo reale il mare e le onde”, racconta al fattoquotidiano.it Ivano Marescotti. “Che grande umanità Pellegrini – continua l’attore – di una modestia che è propria solo dei grandi talenti, perché lui si era formato negli Stati Uniti ed era rimasto là 16, 17 anni”.

Alle Hawaii si era anche sposato con un’americana, ma il capitolo statunitense si chiude presto e il ritorno in Italia è nel 1972 dove poi incontra Osvalda, quella che sarà la sua compagna per il resto della vita. Ed è qui che Pellegrini esprime la sua visione artistica a tutto tondo: il trompe l’oeil. Piazzetta Betlemme a San Giovanni in Persiceto, le pareti esterne della palestra di Castel di Casio (Bo), i muri di un altro slargo in mezzo alle case popolari nel centro di Conselice (Ra) o anche solo il soffitto del primo piano nel ristorante Amerigo di Alberto Bettini, suo amico, a Savigno (Bo): questi alcuni tra i tanti luoghi dove Pellegrini ha lasciato una indelebile traccia di sé, ingannando il passante, lasciandolo come ipnotizzato da un possibile squarcio di sole e cielo in mezzo a un muro grigio, ingannandolo nella quotidianità di panni stesi tra finestre dove nessuno aveva lavato alcunché, o più semplicemente facendolo sognare con cicogne, bambini, serpenti e melograni, che all’improvviso si stagliano sulle pareti urbane. “La mia provocazione è dialogare con lo spazio, sensibilizzare le persone per far loro capire che si possono cambiare i connotati delle superfici architettoniche con pochi tocchi”, spiegava l’artista vicentino.

Bisogna vederlo questo “ruinismo prospettico” pellegriniano per capire cosa avesse convinto Kubrick e Hitchcock a averlo sul set. Oltretutto era già pronta Tramestreme, una mostra a Schio (Vicenza) per il marzo 2015 dove Gino riutilizzava tele ed oggetti per raccontare la storia di un operaio tessitore finito soldato sul fronte della prima guerra mondiale. La camera ardente è aperta fino a lunedì 22 dicembre all’ospedale di San Giovanni in Persiceto dove Gino riposa senza troppi fronzoli con la sua fedele camicia a scacchi, usata quando dipingeva, lui che ha raccontato la vita per immagini dipingendo i muri delle città.

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