Quando il figlio è tornato a casa un ultimo dell’anno completamente ubriaco, la madre ha poi riportato l’episodio narrando agli amici che qualcuno aveva messo qualcosa nel bicchiere dell’ignaro figliolo. Anche D. è convinta che suo figlio – ultra quarantenne – non regga più di mezzo bicchiere di prosecco, ma i racconti dell’interessato circa le numerose bottiglie di Morellino trincate ogni sabato sera al ristorante, non combaciano con l’immagine della madre.

A quindici anni, mia madre mi beccò in tasca il pacchetto di sigarette, ma la scusa del “è di una mia amica che fuma” sembrò funzionare a meraviglia. Un’amica, colta in flagrante con la sigaretta in mano, disse ai suoi che “la stava tenendo a una sua amica” e loro ci credettero. Ci sono poi genitori pronti a scommettere una mano sulla verginità delle loro figlie o sul fatto che i loro figli non sappiano nemmeno cosa sia “farsi una canna“.

I genitori, insomma, farebbero qualsiasi cosa per credere alla buona reputazione dei loro figli, anche se questa non corrisponde necessariamente alla realtà. Da una parte, si vuole conservare dei propri ragazzi un alone di candore che va però sporcandosi – come è naturale che sia – con gli anni dell’adolescenza.

Forte è l’illusione di potersi vantare con la comunità che il proprio rampollo sia migliore degli altri. Avete mai visto con che gusto le madri di figli già grandicelli sparlano delle malefatte di quelli degli altri? La fiducia cieca e un po’ sciocca racchiude in sé il timore di non saperli gestire quando, crescendo, diventano entità complesse da decifrare, anime che non si sono trasformate come avremmo sperato. Molto meglio, quindi, trincerarsi nell’utopia che nulla sia cambiato dal ritratto romantico stampato nella nostra testa.

La verità è che basta un attimo per raggiungere distanze infinite tra noi e loro, e che mentre loro crescono noi invecchiamo. Non semplicemente anagraficamente, piuttosto moralmente. Per mille motivi: il peso della quotidianità sempre uguale a se stessa, il dialogo con il compagno fermo a poche frasi smozzicate e le passioni zittite in un angolo della memoria. E quei figli già grandi stanno lì a ricordarci quel che non c’è più. Un passato sempre migliore del presente, sfumato in un’insipida tranquillità.

Il bambino di cui un tempo si sapeva leggere ogni emozione racchiusa tra le pieghe di un’espressione, è ora un inquilino dalla vita parallela. Ho incontrato qualche giorno fa una donna americana che testa settimanalmente sua figlia diciottenne per vedere se è “pulita”. Visto che una volta, la ragazza ha fallito la prova, ora il test se lo deve pagare lei. E’ facile intuire che le due non dialoghino molto. Sarà che i genitori incarnano sempre negli occhi dei figli quell’idea di vecchio, desueto, superato, che ne ostruisce l’avvicinamento.

L’errore più grande che compiono i genitori è quello di riversare sui figli, anche adulti, il frutto della loro presunta saggezza, frasi come “un domani capirai” o “dai retta a me che ho più esperienza” hanno echeggiato nelle orecchie dei figli di tutto il mondo. Ma facendo questo si perde di vista una piccola verità: da quei soggetti tormentati, insicuri, anche vagamente nerd che chiamiamo figli, possiamo imparare qualcosa. E se non si tratta di esperienza di vita, possono aiutare a ricordarci come eravamo, ad afferrare nuovamente i battiti del nostro cuore, magari facendoci scartare, per una volta, la cosa giusta da fare.

Attraverso loro, con ritrovata tenerezza, potremmo ripartire con un sogno folle, bagnato di fantasia, e mollare il freno rabbioso fatto di rimpianti. E chissà che quella distanza tra noi e loro non cominci ad accorciarsi.

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