La gazzarra scatenatasi attorno alla nomina di Giorgio Alleva a presidente dell’Istat lascia amareggiati. L’appello pubblicato su lavoce.info contro il “presidente senza qualità” Alleva appare inopportuno, anche a prescindere dal merito tecnico della questione. Quest’ultimo è stato valutato dal sito Roars, che ha parlato senza mezzi termini di metodo Boffo, facendo notare ad esempio come le valutazioni critiche espresse dai firmatari dell’appello omettano, chissà perché, le pubblicazioni più rilevanti dell’interessato.

Ma il punto non è tanto questo. Prendiamo anzi per buone critiche e metodo: par di capire che per essere buoni manager pubblici bisogna essere buoni scienziati, e per essere buoni scienziati bisogna avere buoni indicatori bibliometrici. Bene. Partendo dalla fine, ai firmatari dell’appello quest’ultima virtù non fa difetto, ma questo pone un problema di non poco conto. Perché, salvo eccezioni da dimostrare, i firmatari, da Tito Boeri a Luigi Zingales, da Riccardo Puglisi a Boldrin, hanno compattamente aderito all’interpretazione ortodossa della crisi, articolata su due pilastri: che l’euro non c’entrava nulla, e che il problema nasceva a causa di una finanza pubblica corrotta e sregolata che ci esponeva alle giuste reprimende dei mercati. Dalla diagnosi scaturiva una precisa terapia: la necessità assoluta e imprescindibile di mettere l’Italia urgentemente in mano a un governo tecnico che praticasse la dovuta austerità (ricorderete il famoso FATE PRESTO del Sole 24 Ore). Per pura coincidenza, si trattava di un governo espressione dello stesso humus accademico di chi questa diagnosi condivideva e diffondeva.

Eppure tutto era già stato scritto. La terapia si è rivelata drammaticamente errata, e questo perché era errata la diagnosi: l’euro era ed è un problema, la finanza pubblica lo era molto meno, ma lo è diventata grazie all’austerità. Che proprio per questo l’austerità abbia fallito ormai lo ammette anche il Fondo Monetario Internazionale. Che il problema, soprattutto in Italia, non fosse la finanza pubblica l’hanno detto, nell’ordine: la Commissione Europea nel settembre 2012, il vicepresidente della Bce nel maggio 2013, e il ministro Pier Carlo Padoan nel luglio 2014. Che l’euro sia un problema lo dice oggi perfino Zingales, giungendo buon ultimo alla conclusione dalla quale tanti altri sono partiti, cioè che forse sarebbe meglio pensare a come smantellarlo, anziché a come difenderlo.

Uno potrebbe pensare che una certa flessibilità di giudizio sia indizio di mente fertile e non vada stigmatizzata. Ma le cose non stanno così: non stiamo parlando di mere opinioni. Che in recessione le politiche restrittive siano pericolose è un dato assodato della teoria e della prassi economica: è stato Guido Tabellini a parlare nel 2011 del “mito” dell’austerità espansiva. Che l’euro avrebbe messo l’Italia in una seria crisi di competitività lo aveva detto Dornbusch (Mit) nel 1996. Che la Bce avrebbe condotto l’Europa sull’orlo della deflazione lo aveva anticipato Paul Krugman nel 1998. Che l’euro avrebbe causato crisi da utilizzare come “finestre di opportunità” per accelerare l’integrazione politica lo aveva detto, fra gli altri, Romano Prodi nel 2001, e per questo Zingales, nel 2012, parlava di crisi criminalmente premeditata.

Sintesi: l’eccellenza della professione economica italiana ha propugnato diagnosi e terapie economiche che non erano nei fatti (lo certificano le istituzioni internazionali), non erano nella letteratura scientifica, e non erano nemmeno nei libri con i quali si insegna in classe: qualsiasi testo del primo anno vi dirà che in recessione i tagli sono pericolosi.

Ora, se un medico oggi mi proponesse di curare la mia calvizie col salasso, penserei che la sua laurea valga poco o, in alternativa, che è interessato alla mia compagna e vuole togliermi di mezzo. Magari nel 1614 ci sarebbe riuscito. Fuor di metafora, qui i casi sono due: o la misurazione dell’eccellenza in termini bibliometrici lascia a desiderare (e allora meglio non usarla per attacchi personali), o negli ultimi anni abbiamo assistito a un non trascurabile conflitto d’interessi. Insomma: o tanta eccellenza non è servita alla professione accademica a capire cosa stava succedendo, o se invece una consapevolezza esisteva, bisognerebbe chiedersi se è stata esercitata nell’interesse del Paese. I risultati dicono di no, e notate un dettaglio: nei prossimi mesi il principale lavoro del presidente dell’Istat sarà, purtroppo, quello di certificare la situazione disastrosa nella quale i “tecnici” già acclamati dai nostri accademici hanno lasciato il paese. Com’è noto, a pensar male si fa peccato, ma… Così, dopo che gli “austeriani”, come li chiama Krugman, l’hanno compromessa, gli “appellisti” intervengono a dare il colpo di grazia alla credibilità della scienza economica. I comportamenti opportunistici di alcuni possono far sorridere (scoprire dopo le elezioni che l’euro è un problema!). Tuttavia essi hanno una conseguenza grave: diffondendo nell’opinione pubblica l’idea che la teoria economica sia capace solo di registrare e mai di prevedere l’accaduto, ci mettono in balìa di  nel momento in cui più avremmo bisogno di una riflessione ancorata alla realtà. Inutile lagnarsi poi del “populismo”, se chi ha il compito di portare argomenti nel dibattito non si assume la responsabilità dei propri errori.

Da Il Fatto Quotidiano del 9 luglio 2014

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