Mancanza di trasparenza e incentivi illegittimi. Sotto accusa sono sette aziende di primissimo piano nel panorama economico italiano – Eni, Fastweb, Mediaset, Sky, Telecom, Vodafone e Wind – e quelle società che ne gestiscono i servizi di call center. A puntare il dito contro queste imprese, con un esposto presentato alla procura di Roma, sono stati i tre maggiori sindacati del settore della comunicazione, cioè Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil. Le stesse organizzazioni hanno indetto per il 4 giugno uno sciopero nazionale del settore dei call center, indirizzato contro la pratica delle gare d’appalto al massimo ribasso e contro il fenomeno della delocalizzazione all’estero.

E proprio la tendenza a spostare le attività fuori dall’Italia è al centro dell’esposto presentato il 14 marzo 2014 alla procura di Roma, al Garante della privacy, al ministero del Lavoro e all’Antitrust. Le sigle sindacali “denunciano l’assoluta inosservanza”, da parte delle imprese citate, del cosiddetto decreto Sviluppo del 2012. E, in particolare, di un preciso articolo, il 24-bis. Il provvedimento prevede che le aziende di call center, quando intendano spostare parte delle attività all’estero, ne diano comunicazione al ministero del Lavoro e al Garante per la privacy. “Niente di tutto ciò è mai accaduto”, spiega Michele Azzola, segretario generale di Slc Cgil.

La legge stabilisce inoltre che il cittadino sia informato sul Paese dove si trova l’operatore del call center con cui sta parlando. In particolare, se è l’utente a effettuare la telefonata, dovrebbe avere la possibilità di farsi trasferire la chiamata a un operatore attivo sul territorio italiano. Anche in questo caso, secondo i sindacati, le aziende ignorano la legge. “Solitamente l’utente non viene informato in alcun modo”, precisa Azzola. “Al massimo, viene avvertito con la frase ‘La chiamata potrebbe essere gestita dall’estero’, che non chiarisce il Paese dove si trova l’operatore”. I sindacati hanno fatto dei test per individuare le aziende che hanno infranto la normativa. “Quando abbiamo chiesto al lavoratore di dirci da dove chiamava, abbiamo ottenuto le risposte più buffe”, racconta il segretario Slc Cgil. “Alcuni operatori dal chiaro accento straniero ci hanno detto di vivere in Italia, altri ci hanno attaccato il telefono in faccia”.

Infine, il decreto Sviluppo esclude le imprese che delocalizzano all’estero dalla possibilità di godere di una serie di incentivi. Si tratta di agevolazioni contributive, previste dalle legge 407 del 1990, di cui possono beneficiare le società che assumono lavoratori disoccupati da almeno due anni: per questi dipendenti, le imprese versano solo il 50% dei contributi nei primi tre anni e, nel caso siano attive nel Mezzogiorno, sono totalmente esentate dal pagamento nello stesso periodo. “Alcune aziende, invece, continuano a beneficiare di questi incentivi nonostante abbiano delocalizzato parte delle attività”, spiega il sindacalista.

Nel dettaglio, riporta Azzola, i call center fioriscono soprattutto in quei Paesi dove è più facile trovare lavoratori che parlino la nostra lingua, cioè Albania, Croazia, Romania e Tunisia. “All’estero si effettua il 10-12% delle chiamate gestite da aziende italiane”, specifica il sindacalista. “Stiamo parlando di circa 15mila lavoratori, che ricevono un terzo della paga di un operatore italiano“. La priorità delle aziende sarebbe, quindi, il taglio del costo del lavoro, a discapito della qualità del servizio e del rispetto della normativa. Questo fenomeno, si legge nell’esposto, impedisce alle società in linea con la legge di sopravvivere “a causa della distorsione di mercato generata, i cui costi economici e sociali, licenziamenti e utilizzo degli ammortizzatori sociali, ricadono sullo Stato”.

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