La prima girandola delle nomine è finita, ogni tassello è andato al suo posto e i vertici delle più importanti società partecipate dallo Stato sono stati nominati. Se fino allo scorso anno le decisioni venivano prese nelle stanze del potere con uno scarso controllo sulle procedure di selezione e sulle caratteristiche dei candidati, prima il governo Letta (con la direttiva del 24 giugno 2013 il ministero delle Finanze introduceva “requisti per l’eleggibilità” dei candidati e una procedura di selezione affidata a due società di consulenza esterne) e ora quello Renzi (che ha introdotto i “requisiti di onorabilità“) hanno migliorato la situazione. Ma l’optimum è lontano: in un rapporto del 2012 l’Ocse indica come esempio di “good practice” 3 paesi: Svezia, Israele e Nuova Zelanda. Se nella maggior parte dei casi, infatti, la nomina di presidenti, amministratori delegati e direttori generali spetta all’esecutivo, esiste una lunga serie di procedure deputate a garantire che la selezione avvenga nel migliore dei modi e che la scelta ricada sui candidati migliori. Procedure che in Italia non ci sono.

Nel rapporto “Board of Directors of State-Owned Enterprises: An Overview of National Practices” l’Ocse raccomanda che “un organismo indipendente vigili sulla scelta dei candidati” e che “al di là delle procedure formali”, le nomine “dovrebbero essere soggette ad una ampia forma di consenso”. Dal 2013 in Italia le candidature alle società direttamente partecipate sono sottoposte al giudizio di un Comitato di garanzia del Tesoro. Ma per l’Ocse, si può fare di più. Come in Nuova Zelanda, dove la selezione è affidata ad un organismo indipendente, la Crown Ownership Monitoring Unit. In particolare l’autorità elabora la lista dei nomi da sottoporre al ministero competente e ogni candidatura deve essere approvata da un altro organismo, il Cabinet Appointments and Honours Committee, prima di ricevere l’imprimatur del governo. Ma il Comu ha anche un altro compito: conduce un’attenta analisi sulle credenziali di ogni candidato, individuando i conflitti di interesse e passando al setaccio il suo background. Non solo: il Comu indirizza e veglia persino sul processo di approvazione delle nomine da parte del governo.

In alcuni paesi Ocse, poi, la scelta dei candidati viene effettuata con il supporto di comitati esterni alla politica, composti da membri della società civile e del settore privato. E’ il caso della Svezia, dove nel processo delle nomine delle partecipate statali hanno un ruolo preponderante i cosiddetti informal working group: per ogni società partecipata viene formato un apposito comitato che ha il compito di analizzare le effettive necessità della compagnia in base alle funzioni svolte, alla situazione attuale, alle sfide che essa si troverà ad affrontare in futuro e alla composizione del board. La commissione esprime poi la lista di candidati, che poi necessita dell’approvazione del governo. Il consenso alla nomina, poi, deve essere il maggiore possibile. Per questo “ogni nomina all’interno di una società partecipata dallo Stato – si legge nel documento – viene effettuata con l’accordo dei quattro partiti di governo. La decisione viene poi formalizzata dagli uffici del governo, su proposta del ministero competente”.

C’è poi chi testa le competenze dei candidati attraverso una prova scritta. Accade in Israele, dove sulla selezione esercitano un controllo incrociato due organismi: la Government Companies Authority, autorità preposta alla vigilanza sulle partecipate statali, che veglia sulla selezione delle candidature da parte del ministero competente e dal ministero delle Finanze, e l’Appointments Examination Committee, che ha il compito di controllare e stabilire se ogni singolo candidato abbia i requisiti richiesti dalla legge. Ma non basta: ogni candidato deve rispondere ad un questionario preparato dai ministeri per provare di possedere il knowledge necessario a svolgere l’incarico. La Gca esprime un parere su ogni candidato e il Committee lo utilizza insieme ai risultati del test per stabilire se il candidato possiede o meno i requisiti.

E l’Italia? Per l’Ocse le procedure adottate dal 2013 sono assimilabili a quelle vigenti nel Regno Unito, dove la responsabilità della nomina ricade sul ministro competente e le procedure di selezione dei membri dei board sono spesso affidate a società di consulenza esterne (ma dove i candidati sono sottoposti ad un colloquio preliminare). Oltremanica, tuttavia, l’opinione pubblica appare in generale più interessata e vigile sull’argomento. Nel novembre 2012, in seguito allo scandalo che travolse la Bbc colpevole di aver diffamato accusandolo di pedofilia un membro del partito conservatore, Lord McAlpine, un movimento di opinione guidato da giornalisti, artisti e intellettuali chiese con forza che le regole di selezione del nuovo direttore generale della tv pubblica fossero cambiate.

Ma ciò che più differenzia il sistema italiano da quello inglese sono le retribuzioni: nel Regno Unito gli stipendi devono essere approvati dal Senior Remuneration Oversight Committee e ogni stipendio superiore alle 142mila sterline (172mila euro) necessita di un’ulteriore approvazione del Chief Secretary to the Treasury. In generale, si legge ancora nel rapporto, le retribuzioni dei membri dei cda delle società pubbliche dell’area Ocse “sono al di sotto dei livelli di mercato a parità di competenze ed esperienza”. Prima della riforma Renzi, l’Italia era insieme alla Lituania l’unico Paese a lasciare che i cda stabilissero le paghe dei loro stessi membri. Ma ancora una volta la direzione la danno altri paesi: in Svezia la media degli stipendi è del 50% più bassa del livello di mercato. In molti paesi tra cui la Germania i membri dei cda delle aziende interamente statali (avendo altri incarichi) non percepiscono compenso, ma solo un rimborso spese.

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