Ho giurato fedeltà alla Costituzione, non a Stefano Rodotà” sibila con lo sguardo bieco del nume offeso Superbone Renzi. E ai meno giovani torna alla mente quel “intellettuali dei miei stivali” con cui Bettino Craxi apostrofava Norberto Bobbio. Intanto le soavi viperette al seguito del leader, risposta giovanilistica alle amazzoni di berlusconiana memoria, praticano contro il dissenso verso il “rullo compressore” renziano (anche se garbato e argomentato) l’unica arte a cui sembrano avere attitudine: la perfidia. Maria Elena Boschi – tra uno sbattito di ciglia e la messa in posa – raccoglie l’imbeccata di un giornalista de il Foglio per accusare Rodotà di incoerenza; poiché trent’anni fa, in tutt’altre condizioni e senza che ancora imperasse la Seconda Repubblica con relativo Porcellum (o qualche filiazione tipo Italicum), prospettava l’abolizione del Senato.

La catechista Deborah Serracchiani, sguainando il suo sorrisino alla Bambi, vorrebbe riportare al vincolo di mandato (come gli altrimenti esecrati Grillo&Casaleggio) il presidente del senato Grasso; reo di non condividere le logiche pasticciate con cui si vorrebbe fare un restyling al Senato. Magari riempiendolo con le anime morte di quei consigli regionali che tutti i giorni subiscono irruzioni e perquisizioni da parte delle Fiamme Gialle, nel corso di indagini per appropriazioni indebite di pubblico denaro e similari malversazioni.

Queste viperette solitamente pretendono di rimandare al mittente ogni critica bollandola di “maschilismo”. E allora va loro replicato che ci sono donne e donne, come Boschi e Serracchiani non sono Hannah Arendt o Rosa Luxemburg. Così come – per opportuna paritarietà – Matteo Renzi e il fantasmatico Graziano Delrio non sono Franklin Delano Roosevelt, Camillo Benso di Cavour o altri builder politici. Sono soltanto degli illusionisti, davanti a una platea di cittadini disperati che implorano soltanto un’opportunità per sperare. E di cui quelli se ne approfittano. Loro sì, da veri populisti, per cui chi ne smaschera i trucchi è un esecrabile “professorone” (variazione sul tema grevemente sanculotto dei “salotti”), mentre loro sono dalla parte delle famiglie (?). E questo dell’essere dalla parte di chi e di che cosa diventa la migliore cartina tornasole in cotanta discussione surreale. In cui si fa un grande uso di metafore che offuscano allo sguardo il vero stato dell’arte: “Attacco alla democrazia”, “svolta reazionaria”. Perfino “colpo di Stato”.

Come se fossimo al golpe per via democratica sulla falsariga del mussolinismo e dell’hitlerismo. Mentre la realtà è molto più modesta, seppure non meno pericolosa e inquietante: il ruolo centrale attualmente assunto da Renzi deriva dal fatto che l’ex sindaco di Firenze ha stipulato un tacito patto di salvataggio con l’establishment politico e dintorni (in cui spicca buona parte della stampa, un po’ di consulenza e qualche ambiente finanziario-imprenditoriale): forte delle benemerenze mediatiche acquisite con la gag della rottamazione, consentire l’ennesimo mimetismo alla corporazione trasversale del potere.

Quella corporazione oggi largamente rappattumata sotto le sue bandiere; riaccreditata grazie a giochi verbali dal sapore vagamente terroristico, promossi dal nuovo conformismo che ci traghetta verso la Terza Repubblica: l’addebito di “conservatore” appioppato a chi dubita che il cambiamento per il cambiamento sia riformismo; l’accusa di “gufare” come una scudisciata a quanti obiettano che gli effetti d’annuncio presuppongono piani articolati (che non si vedono) e adeguate coperture finanziarie (idem come sopra). Obiezioni a cui la claque replica allo stesso modo di Iva Zanicchi quando difendeva Berlusconi “a prescindere”: lasciatelo provare! Come se fossimo al tirassegno del Luna Park e non in politica, dove è regola esibire garanzie e rendicontare preventivamene. Comunque, basta e avanza per capire senza preconcetti il senso del new deal renziano analizzare dove vada a parare il suo progetto di riforma elettorale: un duopolio di potere, con i vertici che si eleggono i propri fidati. Mentre resta escluso dal gioco il partito più consistente: gli italiani che hanno deciso di non andare più a votare.

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