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Gli schiavi del lavoro dell’Università di Bologna

Gli schiavi del lavoro dell’Università di Bologna
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Gli schiavi italiani del lavoro si possono incontrare ovunque. Nel pubblico, nel privato. E persino tra i corridoi dell’Università di Bologna, uno degli atenei più antichi d’Europa, dove alcuni lavoratori hanno denunciato paghe da fame. E solo dopo giorni di picchetti sono riusciti a farsi riconoscere un minimo aumento di stipendio.

Partiamo dai fatti. Lunedì 31 marzo i bibliotecari dell’Alma Mater hanno bloccato alcune sedi dell’Università per protestare contro un contratto, che da un mese all’altro ha tagliato le loro buste paga del 40%. Questo perché il colosso reggiano Coopservice, che ha vinto gli appalti, ha deciso di applicare il contratto nazionale per la vigilanza, decurtando buoni pasto e una parte degli stipendi. Stiamo parlando, in alcuni casi, di persone abituate a lavorare 11 ore al giorno, festivi compresi, per una paga da 3,40 euro all’ora. Solo dopo quattro giorni di picchetti, organizzati dal sindacato di base con l’aiuto dei collettivi, qualcosa si è mosso: il rettore, Ivano Dionigi, ha convocato i confederali e i vertici della coop, ottenendo la revisione del contratto.

Gesto apprezzabile, non c’è dubbio. Ma di sicuro arrivato troppo tardi, dopo giorni e giorni di protesta e muro contro muro. Le paghe misere non erano un mistero per nessuno, erano state denunciate anche prima dello sciopero. Lo sapevano i confederali, firmatari del contratto, e lo sapevano ai piani alti dell’Università. Eppure all’inizio nessuno si è preso la responsabilità fino in fondo. Nessuno ci ha messo la faccia. “L’Ateneo ha sostenuto per l’appalto Coopservice lo stesso onere finanziario dell’appalto precedente” si era difeso il rettore a proteste appena iniziate, aggiungendo di aver già segnalato “il disagio dei lavoratori” ai ministri competenti.

Parole che sanno del classico “rimpallo di responsabilità”, a cui la politica e l’imprenditoria ci hanno tanto, troppo, abituato in questi anni. E che male si conciliano con l’immagine di un’università di prestigio e con l’idea di un luogo di formazione delle nuove generazioni. Si poteva agire prima. I risultati sarebbero arrivati: l’aumento delle paghe arrivato dopo i blocchi ne è la dimostrazione. Bisognava alzare la voce di più e subito, magari uscire dal proprio ufficio e – perché no – scendere a parlare con gli studenti e lavoratori (giustamente) arrabbiati. Spingersi oltre. Altrimenti alla prossima occasione pubblica i discorsi sui giovani, sul precariato e sul mondo del lavoro, tanto amati dai vertici dell’Alma Mater, agli occhi di molti non saranno più così credibili. 

 

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