Il generale Putin approfitta del fine settimana e muove tutte le sue carte. Prima manda avanti paramilitari probabilmente mischiati a uomini di fanteria di marina da sempre in pianta stabile a Sebastopoli (la flotta conta in tutto circa 380 navi e 25mila militari). Fa issare la bandiera sul Parlamento della capitale Simferopoli. A quel punto i vertici filorussi della Repubblica autonoma chiedono aiuto a Mosca e mentre Putin manda altre truppe dalla regione del Don ‘ottiene’ l’ok del Parlamento per la campagna di Crimea. Con la pericolosissima clausola che Mosca potrà mandare mezzi e truppe anche nel resto dell’Ucraina. Di fatto invadendola. La scusa è proteggere i cittadini di etnia russa.

Putin sa che le prime reazioni (a parte le dichiarazioni politiche) avverranno solo lunedì anche se i toni si stanno alzando rapidamente. La stessa Duma ha chiesto di richiamare l’ambasciatore da Washington e l’Onu ha riunito il Consiglio di Sicurezza. Nel frattempo si potrebbe giocare la corsa alle infrastrutture chiave. Che in gergo si chiamano sensibili. La domanda è: se scoppiasse una vera guerra nella parte centrale dell’Ucraina o in tutto il Paese che succederebbe ai rubinetti del gas che collegano la Siberia all’Europa? Circa l’80% del gas che la Russia vende all’Europa passa da lì. Ci sono tre pipeline costruite nel periodo sovietico. Il più grande è il Western Siberia Pipeline. Poi ci sono il Soyuz, il Brotherhood e il Northen Lights. Questi si collegano a Transgas e al Tag che arrivano in Slovacchia e Austria per rifornire il centro Europa e l’Italia.

Nel gas ancor più che nel petrolio l’evoluzione dell’economia nella direzione globale ha invertito le priorità. Diventa più importante chi possiede le autostrade dell’energia piuttosto di chi ha la stessa energia da vendere. Per questo negli ultimi anni la Russia, immaginando di continuare a soddisfare il fabbisogno Ue, ha messo in cantiere il North Stream e il South Stream. Due mega condotte con l’obiettivo comune di bypassare il territorio ucraino. La prima è stata inaugurata nel 2011 dalla Cancelliera Angela Merkel e dall’allora presidente Dimitri Medvedev. La conclusione dei lavori della seconda condotta che coinvolge da vicino l’Eni è ancora lontana. Dovrebbe tagliare il mar Nero, da Varna attraversare la Bulgaria fino allo stretto di Otranto. Con una serie di diramazioni. Una delle quali dedicata ai Balcani occidentali.

Nello stesso periodo l’unico progetto ideato dall’Unione Europa e in grado di svincolarci dall’approvvigionamento russo è stato il Nabucco. Dovrebbe passare parallelo al South Stream con la differenza che porta energia azera. Il condizionale resta d’obbligo perché il progetto per via dei costi è diventato insostenibile. Le pipeline ucraine sono ormai sature e la Russia sa bene che finché i propri progetti alternativi non vanno in porto bisogna aumentare la capacità di quelli che passano per Kiev e bisogna farlo prima che ritorni la voglia del Nabucco. La Russia ha bisogno di vendere e l’Europa di acquistare. Se il gas passa tranquillamente per l’Ucraina verosimilmente la Ue non investirà altri soldi per strade alternative.

Putin aveva avviato una trattativa con il governo-dittatura di Yanukovic. Con gli accordi di Kharkiv (aprile 2010), Mosca si è garantita la permanenza della sua flotta nella base di Sebastopoli sino al 2042 concedendo un ribasso dei prezzi del gas a Kiev. Poi ha suggerito la fusione di Gazprom e Naftogaz, la compagnia di Stato ucraina. Nulla da fare perché anche Kiev è piena di oligarchi. A quel punto Putin ha avviato la trattativa per prendere l’intera proprietà delle infrastrutture e gestirle a piacimento. Non è detto che sarebbe andata in porto facilmente, ma la caduta del governo fantoccio ha cambiato le carte in tavola. Ora la parola è passata ai fanti di marina, ai paracadutisti e agli spetsnaz (corpi speciali). Più infrastrutture conquistano in queste ore, più per i russi sarà facile discutere sul futuro del gas in transito.

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