Un richiedente asilo è morto e altri 77 sono rimasti feriti negli scontri scoppiati lunedì notte in un centro di detenzione per migranti sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea. Violenze che investono la già controversa politica del governo di Canberra di delocalizzazione della gestione delle richiesta d’asilo dei migranti che tentano per mare di raggiungere l’Australia. I dettagli su quanto accaduto iniziano a emergere. Il ministro australiano per l’Immigrazione, Scott Morrison, ha spiegato di aver ricevuto conferma del fatto che almeno in due occasioni la polizia papuana ha aperto il fuoco contro i richiedenti asilo in protesta.  

Sulle dinamiche di quanto accaduto, tuttavia, le ricostruzioni dell’esecutivo australiano e delle associazioni per la tutela dei diritti umani divergono. Secondo la prima versione, gli scontri sono iniziati quando un gruppo di richiedenti asilo ha cercato di uscire dal centro, la cui sicurezza interna è affidata alle guardie della compagnia privata G4S.  

Attorno alla undici di sera, ha spiegato il ministro, i migranti avrebbero preso d’assalto le recinzioni. Tutto si sarebbe placato dopo alcune ore di scontri, verso le 3 del mattino. Per le associazioni al contrario sono stati residenti dell’isola e la polizia ad attaccare i migranti. Secondo quanto riferito dall’Asylum Seeker Resource Centre, un gruppo di sostegno per la tutela dei migranti, verso le 21 alcuni richiedenti asilo hanno telefonato chiedendo aiuto , denunciando aggressioni e dicendo di temere per la propria vita.  

Quanto accaduto lunedì pare essere conseguenza degli incidenti del giorno prima, quando 35 migranti erano riusciti a scappare per breve tempo dalla struttura. Otto sono stati arrestati con l’accusa di aver lanciato pietre contro le abitazioni. I richiedenti asilo lamentano la lentezza nella gestione delle proprie pratiche, le condizioni di detenzione e sono contro l’ipotesi di dover restare in Papua Nuova Guinea nel caso le loro domande dovessero essere accettate.  

Al momento, scrivono i giornali del gruppo Fairfax, nessuno dei 1340 detenuti ha visto progredire la propria richiesta d’asilo. Nonostante la morte di un migrante e i feriti, di cui almeno due gravi, il governo australiano non è intenzionato a fare marcia indietro rispetto all’attuale politica in materia di immigrazione. È lo stesso Morrison a spiegarlo in conferenza stampa, annunciando un’inchiesta sull’accaduto ed esortando inoltre a non credere alle ricostruzioni sull’incidente fatte dalle associazioni. 

Nel 2012 l’allora governo laburista rispolverò la politica di delocalizzazione della gestione dei richiedenti. La cosiddetta Pacific Solution prevede che i migranti irregolari che arrivano via mare – in gran parte dall’Afghanistan, dallo Sri Lanka o dall’Iraq – siano trasferiti in centri di detenzione fuori dai confini australiani, a Nauru e Manus. Qui possono essere tenuti a tempo indeterminato, senza certezza per il proprio futuro. Una politica per la quale l’Australia è stata ritenuta colpevole dall’Onu di almeno 150 violazioni del diritto internazionale, per aver trattenuto 46 rifugiati in condizioni di detenzione per oltre quattro anni.  

Nell’estate dello scorso anno Canberra ha inoltre siglato un memorandum con la Papua Nuova Guinea in base al quale chi riceverà lo status di rifugiato resterà comunque nel territorio papuano. L’attuale governo liberale ha mantenuto l’impianto di tale politica, affidando inoltre ai militari tutte le operazioni e scontrandosi con il governo indonesiano per le ripetute violazioni delle acque territoriali di Giacarta nel controllo delle coste.  

Agli inizi di dicembre un rapporto di Amnesty International definiva invece vergognose le condizioni dei centri di detenzione a Manus, paragonati a quelli di un regime, con i migranti cui sono negate anche acqua a sufficienza e cure. “Un trattamento umiliante con l’obiettivo di fare pressioni per spingere questa gente a far ritorno nelle disperate situazioni da cui fuggono”, scrive l’organizzazione nell’indicare le responsabilità dirette del governo australiano.

di Andrea Pira

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