L’alibi è stato trovato e, dunque, si può parlare serenamente di argomento archiviato. Almeno per i prossimi sei mesi, se non di più. La legge sul finanziamento pubblico ai partiti, senza la quale, solo pochi mesi fa, sembrava che Enrico Letta fosse pronti a mettere a ferro e fuoco il Parlamento, adesso è diventata “sub iudice”. Un giudice della Corte dei Conti ha sollevato una questione di legittimità di tutte le leggi sul finanziamento pubblico che sono state emanate dal 1993 ad oggi, cioè da quando un referendum abrogativo, votato dal 90% degli aventi diritto, cancellò – almeno sulla carta – la possibilità che la politica fosse finanziata direttamente dal contribuente. E così, fino a quando la Consulta non dirà la sua sulle leggi precedenti, la politica si guarderà bene dal mettere in corsa un’altra legge che poi potrebbe fare la fine delle altre in caso di giudizio negativo. D’altra parte, che non ci fosse la volontà politica di affrontare la materia lo si era capito dal momento in cui i senatori della commissione Affari Costituzionali avevano dichiarato che fino al momento in cui non fosse stata varata la nuova legge elettorale, nessun altro argomento sarebbe stato discusso. Dunque, addio legge sul blocco del finanziamento pubblico. Per chissà quanto.

E i rimborsi, intanto, vanno. E vanno sempre a gonfie vele anche se la cifra che si sono intascati i partiti fino ad oggi, vista anche la crisi, fa tremare i polsi. In vent’anni si sono intascati 2,7 miliardi di euro nonostante 31 milioni di italiani, nell’aprile del 1993, avessero votato di non dargli più una lira. Un referendum, promosso dai Radicali, diventato carta straccia grazie a sottili artifici lessicali che hanno trasformato i “finanziamenti” in “rimborsi”, aggirando la volontà popolare fino a quando, con lo scandalo della Lega, ma anche con il caso Lusi e molti altri accadimenti legati al malcostume della Casta, la volontà popolare si è trasformata in incitamento alla sommossa da parte di Grillo e dei suoi. Inducendo perfino il pacato Enrico Letta, come si ricordava, a minacciare, dal giugno scorso in poi, di intervenire “anche per decreto” pur di mettere fine alla faccenda.

Ora, dopo che la Camera ha approvato, non senza sforzo e disagio, una legge “nuova” fatta apposta per interrompere l’erogazione a pioggia di denaro sui partiti, (salvo poi scordarsela in commissione Affari Costituzionali del Senato), ecco che l’altro giorno un giudice ha messo fine al balletto, sollevando una questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale. Il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis che ha messo in mora tutte le leggi, a partire dal 1997 (la prima legge successiva al ’93), che hanno reintrodotto il finanziamento pubblico dei partiti, per averlo fatto “in difformità” rispetto al referendum. Per De Dominicis, tutte le leggi che la Casta ha prodotto “sono da ritenersi apertamente elusive e manipolative del risultato referendario, e quindi materialmente ripristinatorie di norme abrogate”. Per la Corte dei Conti, quindi, “tutte le disposizioni impugnate, a partire dal 1997 e, via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012, hanno ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993, facendo ricorso ad artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi”. Dalla normativa contestata, sempre secondo il magistrato contabile, deriva “la violazione del principio di parita’ e di eguaglianza tra i partiti e dei cittadini”.

Infatti – argomenta – i rimborsi deducibili dal meccanismo elettorale “risultano estesi”, dopo il 2006, a tutti e cinque gli anni del mandato parlamentare, in violazione “del carattere giuridico delle erogazioni pubbliche, siccome i trasferimenti erariali, a partire dal secondo anno, non solo si palesano come vera e propria spesa indebita, ma assunti in violazione del referendum dell’aprile 1993″ .Insomma, i partiti hanno “preso in giro” i cittadini “attraverso la finzione del linguaggio”, come sottolineato dal professor Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto Costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”, ma questo non ha fermato la Casta. Che ora, come appunto si diceva, ha la forte tentazione di non proseguire nell’approvazione del nuovo ddl in stallo in commissione Affari Costituzionali del Senato per evitare che venga dichiarato incostituzionale appena approvato.

D’altra parte, dentro quel provvedimento è scritto che l’erogazione dei fondi pubblici si sarebbe dovuta interrompere nel 2017, una data troppo lontana, a ben guardare, per la Corte Costituzionale che solo ora, si sottolinea, può intervenire sul tema perché chiamata in causa direttamente da un giudice. E poi in quella legge sono contenute una serie di storture che non risolvono assolutamente il problema così come impostato dal giudice contabile alla Consulta. Si prevede, infatti, l’iscrizione dei partiti che possono depositare il proprio nome nell’apposito registro e accedere al finanziamento, mentre altri no (guarda caso, i Cinque Stelle, perché non hanno lo Statuto), ma a pagare è sempre lo Stato. Per l’anno in corso e prossimi tre anni l’esborso sarà sempre forte: nel 2014, 91 milioni di euro; 54 milioni e 600mila per il 2015; 45 milioni e mezzo per il 2016 e per il 2017 circa 36 milioni 400 mila. A queste somme si aggiungono le donazioni dei cittadini che potranno dare il due per mille mentre il tetto del finanziamento da parte dei privati è stato innlzato, alla fine, fino a oltre 100mila euro. Insomma, l’ennesimo modo per aggirare la volontà popolare.

Resta da vedere che cosa farà il governo alla luce di questa assoluta novità giuridica che ha visto i grillini chiedere di nuovo “la restituzione dei soldi agli italiani” e Mario Staderini, segretario dei Radicali, affermare che per “vent’anni i partiti hanno fatto un furto agli italiani”. La cifra, comunque, è importante. Perché salta agli occhi fin troppo chiaramente che chissà quante cose avremmo potuto fare con 2,7 miliardi di euro in più a bilancio dello Stato. Spesi diversamente.

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