All’inizio del 2012 la città di Asti fu teatro di una sentenza memorabile che riguardò il carcere locale. Il processo aveva visto sotto accusa alcuni agenti di polizia penitenziaria per selvagge violenze nei confronti di due detenuti avvenute in anni precedenti. Il giudice non condannò nessuno. Nelle sue ottanta pagine spiegò però molto accuratamente il perché. Raccontò un sistema di brutalità – detenuti appesi a cardini per i lacci delle scarpe, detenuti cui viene fatto lo scalpo, detenuti privati del sonno e del cibo, detenuti picchiati ripetutamente nel sonno – che è emerso dal dibattimento “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

I fatti in questione, scrisse nero su bianco, sono qualificabili come tortura secondo la definizione che di essa danno le Nazioni Unite. Nel codice penale italiano manca tuttavia un tale reato, nonostante lo scenario internazionale ci imporrebbe la sua introduzione. Con i reati a disposizione, tra prescrizione e altro, quel giudice spiegò di non essere in grado di punire nessuno degli imputati. E ciò nonostante il sistema di violenze e intimidazioni fosse, appunto, sistematico, strutturato, organizzato, tollerato.

Non singole mele marce bensì, come leggiamo dalla penna del giudice, “era possibile per gli agenti porre in essere tali comportamenti poiché si era creato un sistema di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria ed anche con molti dirigenti”. Mai era stato detto così chiaramente: se in una istituzione chiusa quale è un carcere si usa sistematicamente la violenza – e in varie carceri la si usa – le responsabilità non possono essere individuali, poiché il sistema non reggerebbe senza l’omertà anche di chi non vi partecipa direttamente.

A distanza di quasi due anni da quella sentenza, esce fuori la denuncia di Mohammed Carlos Gola, che racconta – come riportato anche oggi dalle edizioni locali de La Stampa – di essere stato percosso e umiliato nel carcere astigiano a seguito della sua conversione alla regione islamica. Vediamo cosa dirà il processo e se lo scenario di torture e razzismo denunciato dal giovane sarà o meno confermato. In ogni caso, l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, oltre alla sua concreta valenza processuale, è un segnale culturale del quale troppo si sente la mancanza.

 

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