Guardo e ascolto. Ascolto e guardo. Michelle Bonev, attrice bulgara poco più che quarantenne, con gli occhi opachi e l’espressione consunta, siede e racconta pacata la sua storia e gli intrighi di corte nei quali si è volontariamente infilata durante questi anni italiani, anni che l’hanno vista scendere a patti con tutti i diavoli possibili. La guardo con attenzione e tento di non giudicarla. Per un po’ almeno, per il tempo che basta per sentire quello che ha deciso di raccontare senza che il rumore interno dei miei pregiudizi prevarichi la sua voce. Sono un’attrice e so perfettamente che più di chiunque altro sarei portata a bollarla, lei, i suoi compromessi, la sua ambizione sfrenata che non l’ha fatta esitare un istante a scavalcare tutto e tutti per arrivare (dove non è mai chiaro ma arrivare è sempre l’urgenza suprema).
So che una grossa fetta di me pensa che se non ci fossero le untrici a impestare il mercato, a doparlo, a barare al gioco, il sistema forse sarebbe meno infetto. Sì, lo so, forse, un po’, lo sarebbe. Ma grazie al cielo, ho conservato la lucidità per sapere che il deserto negli occhi che lasciano i sogni frusti, è peggiore di qualsiasi rabbia da sopruso o senso d’ingiustizia che si possa provare. La Bonev ha prostituito il suo corpo ma più ancora la sua anima per un sogno, per quel sogno dietro al quale in tanti, in troppi ci si ammala: lei voleva-doveva diventare una grande attrice. Solo così avrebbe finalmente ottenuto il riscatto sociale, quell’anelata identità che avrebbe riempito di senso il degrado di sé scientificamente compiuto attraverso la più becera mercificazione di se stessa.
Berlusconi è un sapiente incantatore, un lungimirante Babbo Natale e sa qual è la merce di scambio per comprare o a tratti anche solo adulare qualsiasi donna: Michelle non vuole case, macchine, gioielli, partecipazioni a reality o varietà; Michelle vuole il sogno. E lui le regala il sogno: ‘Goodbye Mama’, il suo film, di cui è regista, interprete, produttrice, diventa per la Bonev la sacra investitura del talento, qui e nel suo Paese d’origine, la Bulgaria, dal quale infatti fa venire al Festival di Venezia a sue proprie spese (ulteriore dimostrazione di quella smania di consenso) una folta delegazione a testimoniare la sua ascesa sulla scala delle arti. Il bisogno del suggello artistico, il riconoscimento dei propri talenti è un cancro che può mangiare l’anima a chiunque contragga il morbo di dover essere approvato. Noi attori lo sappiamo bene, è un brutto male e tutti coloro che non trovano l’antidoto per guarirne finiscono per impazzire.
L’anomalia nella quale la lacera Michelle si è imbattuta è l’anomalia di un uomo che nella sua presunta onnipotenza le ha fatto credere di poterle dare il sole a patto di attraversare lunghi corridoi d’ombra. L’annebbiata, bramosa bulgara ha creduto che vendersi l’anima oggi, la avrebbe portata ad averne una socialmente più pregiata domani. Poi, però, un brutto giorno, nel castello dei sogni infranti, una giovane napoletana, in tutta la sua trivialità ha camminato a passi d’elefante sui cristalli di quell’anima già lisa, e, forse senza neanche averne la consapevolezza, ha pugnalato definitivamente il sogno di quell’Itaca per la quale Michelle aveva accettato tutto: “Lieva mano Miche! Cu chest’attrice è na tarantella che nun fa pe tte. Nonn’e’ cosa toja. Tieni cchiu’ e quarant’ann. Statte cu nnuje. Cca’ stai a casa toja“. Con qualche parola, detta probabilmente anche con affetto, la Pascale ha pugnalato tutti i sogni di gloria e tutte le ragioni per le quali Michelle ha permesso al potere di sodomizzarle l’integrità. Il Re è nudo, il sistema è nudo, la prostituzione diventa vana e un’anima muore. Michelle Bonev ieri ha scritto il suo epitaffio nell’Antologia di Spoon River: “Volli essere attrice. Per il talento che non avevo uccisi la mia anima secoli prima che qui arrivasse a giacere il mio corpo”.
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