La notizia l’ha data Il Fatto Quotidiano, ma Giuliano Amato preferisce replicare a Repubblica, che aveva ripreso la vicenda in un colonnino sperduto a pagina nove e solo perché il M5S ha chiesto le dimissioni del dottor Sottile da giudice della Consulta. Non solo. L’ex premier, nella sua risposta pubblicata dal quotidiano di Largo Fochetti nella pagina delle lettere (con lo stesso ingombro delle normali segnalazioni dei lettori), si difende, ma non dice tutta la verità , omettendo ciò che i giudici hanno messo nero su bianco. La vicenda è quella della telefonata di Amato alla vedova del dirigente socialista Paolo Barsacchi. E’ il 21 settembre 1990, l’ex sottosegretario era morto quatto anni prima ma è comunque accusato dai vecchi compagni di partito di essere l’uomo a cui finì la tangente di 270 milioni di lire per la costruzione della nuova pretura di Viareggio. La vedova del senatore, Anna Maria Gemignani, non vuole che il nome del marito, solo perché è deceduto e non perseguibile, finisca nel fascicolo dei magistrati. E minaccia di fare nomi e cognomi. Interviene Amato, con una telefonata inequivocabile: 11 minuti e 44 secondi in cui il neo giudice della Corte Costituzionale prova a convincere la signora a limitarsi nella difesa del coniuge e a non citare altri dirigenti socialisti coinvolti nella vicenda.
C’è l’audio della telefonata, c’è quanto hanno scritto i giudici nelle carte del processo che portò alla condanna dei responsabili della tangente, tra cui Walter De Ninno, due anni e mezzo per ricettazione nei confronti di un imprenditore di Pisa. Eppure per Giuliano Amato la verità non è quella processuale. Lo scrive nella sua lettera a Repubblica. Dopo aver ricordato che su questa vicenda testimoniò a Pisa nel novembre 1990, l’ex premier prova a raccontare la ‘sua’ versione dei fatti: “Non avevo affatto invitato la signora a non fare i nomi di coloro che le risultavano colpevoli – scrive il dottor Sottile – L’avevo invitata a non fare i nomi di persone su cui non aveva alcun indizio di colpevolezza, pur di salvaguardare la memoria di suo marito. In questo senso le dissi – continua Amato – di difendere lui, senza fare polveroni su altrui”. Poi il giudice Amato racconta come andò a finire: “Il tribunale ne prese atto e finì lì, mentre lì non sarebbe finita se si fosse ritenuto che avessi fatto o spinto a fare qualcosa di illecito”.
La sua versione, tuttavia, cozza con quanto scritto dai giudici, secondo i quali – come riportato dal Fatto Quotidiano due giorni fa – Giuliano Amato chiamò la vedova Barsacchi per evitare “una frittata”, intendendo per tale – scrivono i giudici del tribunale di Pisa Alberto Bargagna, Carmelo Solarino e Alberto De Palma a dicembre di quello stesso anno – “un capitombolo complessivo del Partito socialista“. I giudici vanno anche oltre e, nelle motivazioni della sentenza che condannerà i responsabili di quella tangente, si chiedono come mai “nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli (all’epoca ministro della Giustizia) e Amato stesso, si siano sentiti in dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente della pretura di Viareggio”. Lo scrivono, nero su bianco, nel momento in cui condannano per la tangente i boss della Versilia del Psi e scagionano loro stessi la figura del senatore Barsacchi. Ma Giuliano Amato, questo, non vuole ricordarlo. Almeno nella lettera che scrive a Repubblica per rispondere al Fatto.