La stabilizzazione dei 150mila precari della pubblica amministrazione è un pessimo segnale per il futuro. Non impedirà alle amministrazioni di ricorrere a contratti a tempo determinato anche quando non ce ne sono i presupposti. E viola i diritti costituzionali dei lavoratori che non vi rientrano.

di (Fonte: lavoce.info)

L’ennesima stabilizzazione

La stabilizzazione dei “precari” della pubblica amministrazione avviata dal Governo Letta è tutt’altro che una bella pagina e ancor meno una spinta alla modernizzazione. Al contrario, è una misura che sa di antico perché è una replica di un fenomeno periodico, già risalente al tempo della “legge sul lavoro giovanile” di fine anni Settanta: si creano “ad arte” centinaia di migliaia di posti di lavoro a termine, per poi urlare all’assoluta necessità di introdurre definitivamente nei ruoli pubblici i dipendenti assunti. Per altro, solo pochissimi anni fa, tra il 2007 e il 2008, il Governo del centro-sinistra aveva attivato un’altra ondata di stabilizzazioni, giurando – esattamente come oggi il ministro D’Alia – che “mai più” nella pubblica amministrazione si sarebbe potuto assumere con contratti flessibili, per esigenze stabili.
Visti i risultati dei provvedimenti precedenti e della riforma all’articolo 36 del decreto legislativo 165/2001 (il testo unico del pubblico impiego), che avrebbe dovuto impedire assunzioni flessibili ingiustificate, non si può essere ottimisti sugli esiti di questa ennesima stabilizzazione.
Il pericolo che l’intervento del Governo, lungi dall’impedire alle amministrazioni pubbliche di assumere a termine senza presupposti, incentivi indirettamente gestioni allegre è molto forte.

I danni del percorson privilegiato

Di fatto, la stabilizzazione finisce per essere una sanatoria per comportamenti illegittimi. Se, come affermano i sindacati, i circa 150mila precari sono impiegati nell’erogazione di servizi pubblici essenziali, sicché la loro stabilizzazione risulta indispensabile, allora le amministrazioni che li hanno assunti con contratti a termine hanno violato proprio le disposizioni già vigenti, che vietano appunto l’utilizzo improprio di forme di lavoro a termine per fare fronte a esigenze durature nel tempo. I contratti si dovrebbero considerare nulli e i dirigenti che hanno effettuato le assunzioni dovrebbero risponderne come danno all’erario.
La stabilizzazione, invece, mette una pietra tombale sopra tutto. Lanciando un pessimo segnale per il futuro.

Non solo. Le misure di stabilizzazione sono in evidente contrasto con i principi di parità, libertà di accesso agli impieghi pubblici e concorso pubblico aperto a tutti, posti dagli articoli 3, 51 e 97 della Costituzione.
Il percorso privilegiato di assunzione a tempo indeterminato dei precari, che avverrà prevalentemente mediante concorso pubblico con riserva, falsa le regole del gioco. Così, infatti, si limitano i posti disponibili nei ruoli della Pa, creando una finta concorrenza solo tra i precari con almeno tre anni di anzianità di servizio nella stessa amministrazione negli ultimi cinque anni, lasciando agli altri concorrenti i restanti posti, in aperta contraddizione col principio del concorso aperto a tutti.

Il decreto 78/2009, convertito in legge 102/2009, aveva disegnato un’uscita dal problema delle stabilizzazioni, prevedendo un principio diverso: concorsi aperti a tutti, senza alcuna riserva, ma con la possibilità di riconoscere a chi avesse svolto servizi con contratti flessibili nella pubblica amministrazione maggiori punteggi nell’ambito della valutazione dei titoli.

Non si capisce la ragione dell’abbandono di questa strada, che appare la più corretta per contemperare gli interessi dei lavoratori con i principi tutelati dalla Costituzione. O, forse, la stabilizzazione è offerta dal Governo ai sindacati come moneta di scambio, tendente a evitare scontri e dissapori, dopo il prolungamento del congelamento delle retribuzioni e dei contratti collettivi fino al 31 dicembre 2014.
Resta, tuttavia, la forte discriminazione tra cittadini. I “precari” che usufruiranno della stabilizzazione vengono avvantaggiati dalle illegittimità commesse dai datori pubblici. Essi avevano partecipato (e probabilmente non tutti) a concorsi per lavori a tempo determinato; se le selezioni fossero state sin dall’origine finalizzate a contratti a tempo indeterminato è chiaro che il numero dei concorrenti sarebbe stato maggiore, con alte probabilità di esiti differenti.

Non solo: la stabilizzazione come disegnata dal Governo non assicura nemmeno l’integrale assorbimento di tutti i 150mila potenziali interessati, creando disparità di posizione anche tra loro. Infatti, restano in piedi tutti i vincoli vigenti alle assunzioni, composti da tetti complessivi alla spesa del personale e da limiti percentuali al turn over. Il che conferma la sensazione che la sanatoria, pardon, stabilizzazione attivata dal Governo difficilmente sarà l’ultima. Anche perché la “stretta” sulle assunzioni a tempo determinato, immancabilmente operata quando si decide di stabilizzare, potrebbe (come la precedente) non avere alcun esito, se perdurerà il gravissimo problema causato nella gestione amministrativa dalle riforme Bassanini di fine anni Novanta: l’assenza totale di controlli preventivi di legittimità da parte di organi terzi, esterni alle amministrazioni procedenti.

 

Bio dell’autore

Luigi Oliveri: E’ Dirigente Coordinatore dell’Area Funzionale Servizi alla Persona e alla Comunità della Provincia di Verona, che raggruppa il Settore Politiche Attive per il Lavoro, i Servizi Turistico-Ricreativi ed i Servizi Socio-Culturali. Collabora dal 1997 al quotidiano economico “Italia Oggi” per gli approfondimenti giuridici delle questioni attinenti agli enti locali. Collabora dal 1999 con “Ancitel s.p.a.”, società dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e dal 2003 con il Centro Studi e Ricerche sulle Autonomie Locali di Savona.

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