Per risanare l’Ilva di Taranto servono oltre 8 miliardi, ma nelle casse della holding dei Riva il “tesoretto” sequestrato dalla Guardia di finanza di Taranto è di soli 250mila euro. Pochi spiccioli di fronte al fiume di denaro necessario per risanare lo stabilimento siderurgico ionico che diffonde “malattia e morte”. Un sequestro che la procura ionica ha chiesto e ottenuto dal gip Patrizia Todisco e confermato poche ore fa anche dal Tribunale del riesame che ha rigettato i ricorsi della Riva Fire, società che controlla Ilva spa.

Per l’esattezza nelle casse di Riva Fire i finanzieri hanno bloccato circa 212mila euro e altri 44mila euro nella società Riva Forni elettrici. Un percentuale inferiore all’1% del necessario. Somme di denaro che sulla carta, stando all’ultima iniziativa del Governo, “sono messe a disposizione del commissario e vincolate” alle operazioni di “esecuzione degli obblighi di attuazione delle prescrizioni dell’aia e di messa in sicurezza, risanamento e bonifica ambientale”, ma che nella realtà dei conti non sono sufficienti nemmeno a immaginare l’avvio dei lavori di messa a norma degli impianti dell’area a caldo. Soldi che, secondo lo svincolo disposto dal Governo nell’ultimo decreto, dovrebbero essere utilizzati immediatamente dal neo commissario Enrico Bondi (amministratore delegato di Ilva fino al momento della nomina governativa) per adeguare i reparti dell’Ilva alle prescrizione contenute nell’autorizzazione integrata ambientale.

Un’impresa che ora più che mai appare complicata nonostante il commissario Bondi (al quale a breve si aggiungerà come subcommissario l’ex ministro Edo Ronchi) possa utilizzare l’intero ricavato della vendita dell’acciaio per rispettare tempi e prescrizioni dell’Aia. Già nell’audizione di qualche giorno fa alla Commissione industrie del Senato il procuratore Sebastio aveva spiegato che “la cifra di 8,1 miliardi di euro sequestrati all’Ilva come equivalente per il risanamento è una cifra al di sotto della realtà”. Il decreto infatti stabilisce che anche “i proventi derivanti dall’attività dell’impresa commissariata restano nella disponibilità del commissario nella misura necessaria all’attuazione dell’aia ed alla gestione dell’impresa nel rispetto delle previsioni del presente decreto”.

 

All’orizzonte, quindi, sembrano profilarsi almeno due ipotesi. La prima è che l’Ilva possa indebitarsi con gli istituti bancari (Banca Intesa ha già spostato le linee di credito di Riva Fire in capo alla controllata Ilva), la seconda è quella di una rimodulazione dei tempi dell’Autorizzazione prevista nel decreto, ma che di fatto aprirebbe un nuovo scontro con la magistratura. Già perché nell’ultimo provvedimento con il quale ha confermato i custodi tecnici Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento ha ribadito chiaramente che, seguendo le disposizioni della Corte costituzionale che ha dichiarato legittima la legge “salva Ilva” voluta dal ministro Clini, se l’Ilva dovesse ancora violare quanto previsto dall’Aia, potrebbero configurarsi le condizioni per un nuovo sequestro senza facoltà d’uso degli impianti.

Intanto continuano le incursioni in fabbrica dei custodi e dei carabinieri del Nucleo ecologico di Lecce che stanno setacciando i documenti e ispezionando i reparti per valutare concretamente lo stato di avanzamento dei lavori. Tuto racchiuso in relazioni settimanali che i tecnici e i carabinieri consegnano alla magistratura e sul quale al momento vige il più stretto riserbo. L’inchiesta “ambiente svenduto” intanto sembra voglere al termine: la procura, al lavoro per la conclusione delle indagini, sta valutando la posizione di nuovi nomi che potrebbero aggiungersi ai tanti già finiti nel registro degli indagati.

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