Rigore scientifico. Ricerca storica. Passione. Armonia. Sentimento. Sono queste le folgoranti qualità del saggio Il sogno che uccise mio padre. Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti (Rizzoli 2013, 18 euro, 274 pp.) scritto dal figlio Luca, a 28 anni di distanza dall’assassinio a opera delle Brigate Rosse nel parcheggio della Facoltà di Economia dell’Università “Sapienza” di Roma, il 27 marzo 1985.

Luca Tarantelli riesce nell’aspetto più difficile: unire il racconto storico a quello privato, ma senza uscire dai margini della ricostruzione scientifica. “Mio padre però non c’era più: era stato sostituito da una narrativa pubblica che lo presentava come un un eroe […] Così, nemmeno il dolore fu più mio: la sua morte era diventata una questione di Stato […] e questo mi espropriò della possibilità di elaborare il lutto. […] Quei diciassette proiettili conficcati nel suo torace rendevano la sua morte un evento intenzionale, un dolore provocato espressamente […] Non è la stessa cosa la perdita di un padre in un incidente, o per una malattia, piuttosto che per un omicidio.” L’autore, usando il portentoso strumento della scrittura e mettendo a frutto quelli che si percepiscono come anni di terapia dolce e intelligente, in queste pagine riesce finalmente a elaborare il lutto e a trovare la serenità di mettere insieme un testo che dovrebbe essere fatto leggere nelle scuole.

Tre anni di lavoro duro e doloroso, ma necessario per ricostruire anzitutto una cornice su almeno quattro livelli. Il primo livello è quello della cornice storica di un’Italia spaccata fra rossi e neri uniti solo dalla P38. Il secondo livello è quello della ricostruzione – in un linguaggio piano e umanistico – delle delle intuizioni economiche spesso geniali di Ezio Tarantelli. Il terzo livello è quello della cornice personale, ricavata dal figlio attraverso una attenta e ponderata selezione di interviste ad amici, colleghi, studenti e parenti di Ezio. Impressionante la lista di personalità oggi famose a livello internazionale che hanno avuto a che fare con l’economista romano: da Carlo Azeglio Ciampi, che cura un’affettousa prefazione, a Guido Carli, dal Nobel Franco Modigliani ad Aris Accornero, solo per citarne alcuni.

La quarta cornice è relativa alla dinamica dell’assassinio, che come mi ha confermato l’autore in un breve incontro romano “Non è e non vuole essere il centro della storia“. Luca me lo spiega con una metafora calcistica, e anche nella scelta di questo parallelo popolare viene fuori tutta la sua dolcezza e il suo desiderio di essere comprensibile a un pubblico il più vasto possibile: “E’ come se in una partita di calcio sul 4 a 3, a venti minuti dalla fine, entra un giocatore avversario che in tackle spezza le gambe a un giocatore della tua squadra. Lo racconti, certo, ma racconti anche ciò che è successo nei settanta minuti precedenti: quella è la partita.” Molto bello anche l’intreccio con quel po’ di autobiografia che Luca dischiude, fra macro e microstoria, mettendo in parallelo gli eventi della storia d’Italia con la sua esperienza di studente del liceo Tasso di Roma negli anni Novanta.

In questo saggio l’autore ci prende per mano e ci fa conoscere suo papà – chiamato così per la prima volta solo a pagina 236; prima si riferisce a lui come “Ezio”, “Tarantelli”, “l’economista romano”, e molto più raramente, “mio padre”. Ne vien fuori un uomo anzitutto sorridente, ottimista, brillantissimo studente e poi ricercatore di Econometria nelle due Cambridge, un marito innamorato della sua bella moglie, con un’automobile lurida e scassata, un papà amorevole, che sgonfia gradualmente i braccioli del figlio piccolo per insegnargli a nuotare senza dargli l’ansia del fatto che si compie. Luca, di questo papà così bello, non ne fa però un’apologia. Tratteggia in modo netto i difetti dell’uomo pubblico: un impolitico, anche molto ingenuo, sicuro di doversi esporre sulla stampa, in tempi politici che puzzavano di polvere da sparo, perché “la gente ha bisogno di capire“.

Ezio vedrà invece le sue idee distorte e usate da una classe politica (soprattutto del Pci, il partito che pure Tarantelli votava) e sindacale (la Cgil) non in grado o addirittura nolente di seguire le sue intenzioni. Il suo “sogno”, che gli causerà quelle 17 pallottole in petto, rimane tale: irrealizato, distorto. Ezio, come spiega Accornero, voleva “alleggerire il peso della scala mobile […] nella prospettiva però di restituire ai lavoratori quel che era stato loro levato, qualora non si registrasse un aumento dell’occupazione.” (182). Il punto centrale era che Tarantelli voleva legare gli scatti trimestrali della scala mobile non più ai dati del passato dell’inflazione, ma a quelli previsti per il futuro: un concetto che avrebbe messo nelle mani del sindacato la possibilità di determinare la politica economica dello Stato.

Col senno di poi sappiamo che Ezio Tarantelli aveva visto giusto. I problemi da lui indicati, e che voleva evitare, si sono puntualmente verificati e poi accentuati, dal “salto generazionale” al problema dei salari. Uno dei tanti treni persi dal sistema Italia. Nel sangue.

 

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