L’altro giorno stavo sonnecchiando davanti ad uno dei tanti talk show politici serali in cui si parlava di lavoro e precariato. Ad un certo punto il conduttore cede la parola ad un ‘giovane del pubblico’ (così lo chiama) che, come molti altri, passava ogni tre mesi da un lavoro sottopagato ad un altro. Improvvisamente le sue parole destano la mia attenzione facendomi uscire dal dormiveglia in cui ero immerso: “…Lei mi chiede come faccio? Ho 32 anni, affronto la cosa da ragazzo, rimboccandomi le maniche, ecc…”. In quel momento ho pensato che quella persona aveva già perso la sua battaglia.

Ho quasi la stessa età di quel ‘giovane del pubblico’ (pochi anni meno) e non sopporto di essere considerato ancora un ragazzo. Non è solo un’arida questione di definizione: penso che il modo in cui ci consideriamo guardandoci allo specchio sia qualcosa più di una semplice etichetta. Considerarsi ‘ragazzi’ a 32 anni vuol dire essere disposti ad accettare tutta una serie di compromessi (in particolare sul lavoro) perché in fondo siamo ‘giovani’, non possiamo pretendere di avere davvero voce in capitolo o di avere un contratto decente o di essere pagati a sufficienza.

E’ esattamente ciò di cui l’attuale mondo del lavoro ci vuole convincere. In fondo se ti considerassero un ‘uomo’ potresti anche avanzare delle pretese e avere maggiori aspettative. E’ molto meglio avere a che fare con dei ragazzi ed ancora meglio se a questi ragazzi viene assegnata anche l’etichetta di ‘giovani’.

Credo che questa sia una distorsione tutta italiana e mi spiego: per motivi lavorativi conosco molte persone straniere, in particolare da paesi anglosassoni. In inglese le parole boy e girl sono utilizzate per riferirsi a ragazzi (in questo caso è la parola giusta) fino ai 20 anni di età, a volere essere davvero generosi fino ai 25, dopodiché la società ti considera un man e una woman. Ma soprattutto sono le stesse persone a considerarsi in quel modo.
In Italia a che età saremo considerati uomini e donne? Lo so, mai. Ragazzi per sempre.

Duilio Farina

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