Queste due tornate elettorali hanno in comune la fine di un’era. Nel 1994 era tramontato il primo sistema dei partiti, oggi potrebbe essere a un passo la fine del potere berlusconiano.

Dopo il 1994 la rigenerazione è stata solo parziale e con il tempo ha riprodotto e moltiplicato i frutti degenerati della corruzione e del malaffare politico. Nel 1993 l’indignazione popolare tocca le punte massime in seguito alle tangenti intascate dai partiti. Le elezioni amministrative del 1993 segnano una netta vittoria delle sinistre e nulla sembra impedirne il successo alle politiche del’ 94.

A gennaio del 1994 Berlusconi decide di candidarsi e fonda il partito azienda Forza Italia. Gli bastano due mesi per vincere le elezioni e divenire la forza trainante di una coalizione biforcata: a Nord alleata con la Lega di Umberto Bossi, a Sud con il Movimento Sociale di Gianfranco Fini.

Il conflitto di interessi legato a Berlusconi é subito riconosciuto anche da osservatori moderati, come Sergio Romano, ma ciò non desta la preoccupazione degli italiani che pure si sono scandalizzati per la corruzione del sistema.

Evidentemente quei risentimenti sono solo passeggeri perché andare oltre Tangentopoli implica costruire un nuovo sistema di regole e un nuovo patto di cittadinanza. Ma il concetto di regola in quel 1994 non appare seducente al cospetto dell’alone di efficienza e di successo che ammanta la figura di Silvio Berlusconi. Tuttavia all’inizio di marzo del 1994, il settimanale londinese “The Economist” quantifica in 3.800 miliardi di lire i debiti della Fininvest, situazione confermata da Mediobanca. A Londra si dice che, in caso di successo, Berlusconi rafforzerebbe i suoi interessi, ma la sinistra non sa attaccarlo, sottovalutando l’avversario che ha capito meglio degli altri come sono le competizioni elettorali quando le televisioni sopravanzano le piazze.

Netta la sconfitta della favoritissima coalizione di sinistra guidata da Achille Occhetto, l’uomo che aveva sciolto il Partito comunista, ma che non è stato in grado di dare corso a una nuova politica. La sua coalizione, con Rifondazione comunista e altre formazioni minori, è scossa da liti interne già in campagna elettorale. Nota è la disputa sui Bot che Fausto Bertinotti vuole tassare mentre il Pds è contrario (Occhetto era appena stato in visita alla City londinese).

 La società è affamata dalla ricerca del “nuovo”, non crede più ai grandi sistemi ideologici ed è insofferente a tutto ciò che suona come partito. Non è però cessato il bisogno di sognare un futuro migliore e Berlusconi è abile a muovere la fabbrica della persuasione, onnipresente a lusingare prima del voto, come da allora ha sempre fatto, salvo stralciare i suoi “contratti” una volta salito al governo:  promesse da marinaio di un commerciante che ignora i doveri della “post vendita”.

Sono passati quasi vent’anni e Berlusconi si è rivelato un leader autoritario, ma la sua propensione alla popolarità lo ha reso anche incapace di decidere; il suo massimo livello di autocritica è stato spiegare i suoi fallimenti scaricando le colpe sugli altri.

Ora lui non è più “il nuovo”: l’uso pro domo sua delle istituzioni che l’Economist aveva previsto si è verificato. Negli anni ha perso una parte del suo seguito, ha selezionato la sua classe dirigente come nei set di un talent, non ha perso occasione per oltraggiare la dignità delle donne, al punto che anche la Chiesa gli ha voltato la faccia. Restano le boutade da demagogia fiscale, come nel suo messaggio di esordio.

Oggi, con più forza rispetto al 1994, sta avanzando fra i cittadini una richiesta di regole e legalità che ha costretto i partiti a tenerne conto, ma che potrebbe non essere sufficiente a imprimere una svolta.

Il centrosinistra che ha spesso arrancato dal punto di vista dialettico e programmatico di fronte a Berlusconi (si ricordi la disastrosa campagna elettorale di Walter Veltroni nel 2008 e quella non brillante di Prodi nel 2006) giunge con ritardo. Quest’anno, al primo posto, ha inserito la legge sul conflitto di interessi che andava fatta nel ’96.

La lettura del declino presuppone l’idea su come costruire le nuove fondamenta e qua si rischia l’errore commesso nel 1994: non essere in grado di rifondare la politica e le istituzioni. Nell’odierno dibattito mancano proposte legate a un disegno di insieme che vadano al di là della riduzione (indispensabile) del numero dei parlamentari. E’ necessario profilare un nuovo quadro normativo sui poteri del governo, sui tempi di approvazione delle leggi, sul funzionamento della giustizia e su come guidare l’economia, evitando – in questo caso – di lasciare la barra del comando unicamente ai flussi del mercato globale e ai vincoli dell’Ue. A Strasburgo la nostra autorevolezza internazionale (se ci sarà) andrà usata per rinegoziare i Patti di stabilità e crescita (la Francia e altri potrebbero aiutarci) in una direzione che aumenti il peso dell’Europa dei popoli su quella della finanza.

Le regole non devono solo rispondere a un principio di onestà, ma devono essere anche il presupposto di  funzionamento e di decisioni partecipate. Quella competizione elettorale del 1994 ci ha detto che si è persa l’occasione di riavvicinare il Palazzo alla cittadinanza. Oggi vorremmo nuovamente intravedere questa possibilità.

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