Lieto di vedere che almeno uno dei miei lettori, su questo blog,  che si firma fred67, ha citato Jared Diamond. Là egli raccontò la storia di Pizzarro e di Atahualpa, cercando di spiegare pacatamente (e con eccellenti argomenti) perché mai fu Pizzarro a andare in America a uccidere Atahualpa, e non avvenne invece il viceversa.

Poiché la discussione sul mio post precedente, intitolato “Sapienza d’Africa”, ha suscitato così tante repliche intinte nell’eurocentrismo più o meno fanatico, mi pare utile tornare sopra all’argomento. Lo faccio riprendendo alcuni eventi lontani, riassunti tutti nel bellissimo libro di un cristiano fervente, Ernesto Balducci  (“L’età del  tramonto”, Edizioni Cultura della pace, 1992).

Cominciando dal racconto dell’incontro tra Pizzarro, appunto, e Atahualpa, il cui autore  fu frate Vincente (*). Nomen omen.

Atahualpa fu l’ultimo re degli Inca. Frate Vincente voleva convincerlo a sottomettersi al re di Spagna e al Papa. Il re Inca dovette essere uomo di tempra e di grande realismo. Infatti rispose che non aveva problemi a sottomettersi a un re così potente, a giudicare dalla superiorità delle armi e dell’esercito che aveva inviato. Tuttavia non ne volle sapere del Papa di Roma. In primo luogo perché non lo conosceva, ma anche perché, evidentemente, diffidava di un signore che sposava le sue credenze a una tale potenza militare, facendosi precedere dai cannoni e dalle colubrine. E poiché frate Vincente continuava a parlargli di Cristo, mettendogli davanti due divinità in una, Atahualpa chiese qualche prova della sua effettiva divinità. Al che frate Vincente gli porse il libro che aveva in mano e gli disse che in quel libro c’era la prova della divinità del Cristo.

Il re Inca – così termina il racconto – “lo prese, l’aprì, lo guardò da tutte le parti e lo sfogliò. E, dicendo che dal libro non veniva nessuna parola, lo buttò a terra. Frate Vincente lo raccolse e se ne andò verso Pizzarro gridando: ha gettato a terra i Vangeli. Vendetta, cristiani! Addosso!” E fu carneficina.

Non so quanto di quel racconto sia vera e quanta sia la fantasia di frate Vincente. Ma possiamo rintracciare la sorgente delle sue idee, riandando alla bolla Romanus Pontifex del 1455, in cui papa Niccolò V concedeva al re Alfonso V del Portogallo “la piena e libera facoltà di debellare e soggiogare ogni sorta di Saraceni, pagani e nemici di Cristo comunque organizzati, di invadere e conquistare i regni, di ridurre in servitù perpetua le loro persone”.

Si era 37 anni prima dell’impresa di Cristoforo Colombo e si può dunque immaginare, dopo tali auguste parole, con quale spirito evangelico il nostro glorioso genovese si accinse a partire per le Indie. Del resto non c’era possibilità di equivoco. Il papa Alessandro VI, successore di Niccolò V scrisse ai re di Spagna, il 6 maggio 1493, una  splendida lettera in cui, dopo avere ringraziato le loro Altezze per avere inviato Cristoforo Colombo “a cercare isole e terre remote”, sottolineò che la Divina Maestà apprezzava “in modo particolare (…) che i popoli barbari  siano vinti e condotti alla fede”. E, poiché parlava in quanto “vicario di Gesù Cristo”, non esitò ad assegnare ai sovrani “tutte le isole e terre trovate e da trovare, scoperte e da scoprire”.

Così cominciammo a diventare quello che siamo diventati. E la Chiesa Cattolica, altrettanto. A sua somma vergogna. Ma la memoria dei popoli e più lunga delle nostre conquiste, spirituali e tecnologiche. Quando, nel 1985, Giovanni Paolo II, ora beato, andò in visita pastorale in Perù – racconta Ernesto Balducci  – “una delegazione di indios andini, tra i quali Ramiro Ranyaga, del Movimento Tupac Katari (kechua), gli consegnò questo messaggio: “Noi, indios delle Ande e dell’America, abbiamo deciso di approfittare della visita di Giovanni Paolo II per restituirgli la sua Bibbia, perché in cinque secoli essa non ci ha dato amore, né pace, né giustizia. Per favore, riprenda la sua Bibbia e la restituisca agli oppressori, perché loro più di noi hanno bisogno dei precetti morali in essa contenuti. Infatti, con l’arrivo di Cristoforo Colombo, in America si sono imposti una cultura, una lingua, una religione e valori che erano propri dell’Europa”.

Possiamo dunque essere orgogliosi della  vittoria. E’ durata cinque secoli. La questione è di quale vittoria si è trattato. E l’altra questione è che, probabilmente, quella vittoria sta per trasformarsi in una sconfitta. Poiché di fronte a noi si erge una saggezza che affonda le sue radici nei milioni di anni di equilibri che noi umani civili dell’Occidente, noi cristiani, noi servi di quelle idee, stiamo distruggendo. Questo nemico, che noi abbiamo evocato con le nostre mani, è immensamente più potente di ogni altro  mai immaginato.

*L’episodio è riportato nella Hispania victrix. Historia general de la Indias, 1598, Francisco Lopez de Gomara, che fu al seguito di Hernan Cortes. 

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