La prima pagina de il Fatto Quotidiano di sabato scorso dava notizia della presenza dell’ex presidente del Consiglio di Stato ed ora giudice costituzionale, Giancarlo Coraggio, durante la perquisizione operata nei confronti di suo cognato nell’ambito di una indagine di riciclaggio che sarebbe stata posta in essere da un istituto di credito già all’attenzione della Procura nell’ambito di attività di contrasto ai capitali della criminalità organizzata.

Un fatto abbastanza curioso, rispetto al quale il giudice Coraggio si è giustificato dicendo che era intervenuto dopo l’inizio della perquisizione per offrire un sostegno “morale”.

Di ben diverso tenore è il comunicato del presidente di Federcontribuenti, che si domanda per quale ragione il presidente Coraggio (all’epoca anche membro del Csm dei giudici amministrativi) abbia mostrato durante la perquisizione il proprio tesserino di magistrato del Consiglio di Stato e chiede di verificare cosa sia veramente successo durante quella perquisizione e anche dopo, quando, sempre ad avviso sempre del presidente della Federcontribuenti, il Pm e segretario nazionale di Md Giuseppe Cascini avrebbe “congelato” le indagini per due anni.

Ora, il punto è questo: il codice etico dei magistrati amministrativi  prevede che “Il magistrato osserva, nella vita sociale, una linea di condotta ispirata ai più rigorosi canoni di dignità e di decoro, sì da offrire una immagine di se stesso, tale da essere riconosciuta ed apprezzata dai consociati come adeguata al prestigio della funzione esercitata”.
È quindi deontologicamente corretto che un alto magistrato del Consiglio di Stato si qualifichi come tale durante una perquisizione a carico di uno stretto parente in una indagine correlata al riciclaggio di capitali? Si tratta davvero di un opportuno sostegno morale? I commenti che abbiamo letto in queste ore sulla stampa sembrano offrire un valido parametro riguardo al riconoscimento del comportamento del dott. Coraggio, da parte dei consociati, in termini di “adeguatezza al prestigio della funzione esercitata”.

Ma la denuncia del presidente di Federconsumatori offre altri spunti di riflessione, come visto.
Per esperienza personale, devo dire che non è la prima volta che la Procura di Roma non si mostra così solerte nelle indagini che coinvolgono i vertici della Giustizia Amministrativa. Una mia denuncia nei confronti di due presidenti del Consiglio di Stato (tra cui Paolo Salvatore, anche quest’ultimo ora alla Corte Costituzionale, ma nella commissione di disciplina) per la nota vicenda del c.d. caso Giovagnoli è stata tenuta nel cassetto di un Pm per circa 18 mesi, senza che nulla fosse fatto. Una seconda denuncia sugli stessi fatti presentata invece da me a Firenze (come seguito di altro fascicolo),  è stata inviata poco dopo a Roma per competenza, dove un Pm più solerte ha svolto indagini e mi ha sentito personalmente, finché il fascicolo è stato chiesto in visione da altro Pm, cui poi è stato riassegnato il procedimento, e presso il quale il fascicolo è rimasto per molti mesi, finché anche io, come nel caso riferito da Federcontribuenti, ho chiesto formale richiesta di avocazione al Procuratore Generale.

Ma, in caso di dubbi sul comportamento da tenere, i magistrati del Consiglio di Stato a chi devono chiedere un consiglio, secondo il loro codice etico? Ovviamente al presidente del Consiglio di Stato pro tempore, cioè, negli ultimi anni: a Paolo Salvatore (per il quale era stata addirittura chiesta una misura cautelare dal Pm di Santa Maria Capua Vetere  ed attualmente indagato per il “caso Giovagnoli”), a Pasquale de Lise (noto per il coinvolgimento, da non indagato, nelle indagini della cricca) e, in ultimo, proprio a Giancarlo Coraggio. O, in alternativa, al presidente della Associazione dei Consiglieri di Stato, cioè, sempre negli ultimi anni, il “fortunato” acquirente di case di fronte al Colosseo Filippo Patroni Griffi e, dopo, sempre il nostro Giancarlo Coraggio.

A proposito, che fine ha fatto l’indagine sulla casa del consigliere di Stato-ministro Filippo Patroni Griffi?

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