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José Mourinho e la sindrome di Romeo e Giulietta

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Sabato 26 gennaio 2013 l’allenatore portoghese José Mourinho – il più vincente della storia calcistica ha trionfato nel campionato nazionale di ben quattro nazioni europee, Portogallo, Inghilterra, Italia, Spagna e la Coppa dei Campioni, con due squadre diverse (Porto e Inter), primato condiviso con Ernst Happel e Ottmar Hitzfeld – ha compiuto 50 anni.

José Mourinho è l’icona della ‘gloria’ interista. L’allenatore del fantastico ‘triplete’ nella stagione 2009-2010, che ha conquistato nello stesso anno la Coppa Italia, la Coppa dei Campioni e il Campionato nazionale, impresa mai riuscita nessun’altra squadra italiana. Eppure José Mourinho non è mai stato molto amato nella nostra nazione, probabilmente perché allenava una squadra come l’Inter dalla vocazione spiccatamente ‘élitaria’ e non la Juventus, la squadra della maggioranza degli italiani. Il punto di maggior tensione, quello della svolta in cui l’allenatore portoghese maturò la convinzione di abbandonare l’Italia, si verificherà il 20 febbraio 2010, durante Inter-Sampdoria, conclusasi 0-0 con due espulsi e l’Inter che chiude la partita in 9.

L’immagine che gli costerà 3 giornate di squalifica, e completamente fraintesa dai giudici, è quella di José Mourinho a pugni alti e intrecciati, simulando manette virtuali. Con il suo gesto di un’efficacia estetica straordinaria l’allenatore portoghese non invoca l’arresto dell’arbitro e dei suoi assistenti, (tesi dei suoi detrattori, condivisa dalla giustizia sportiva) quanto, invece, il proprio arresto, con la seguente allusione: “A questo punto arrestatemi, ammanettatemi pure, tanto io riuscirò ancora una volta a liberarmi”. Atteggiamento dunque capovolto nell’interpretazione dei giudici. Gesto troppo sofisticato, che presume la lettura del grande libro di Houdini del 1909, I segreti della manette e la geniale interpretazione dello psicoanalista Adam Philipps, La scatola di Houdini. Le arti della fuga (Ponte alle Grazie, Milano 2012). Non si può pretendere troppo, arbitri, guardalinee e giudici sportivi non potevano averli letti, essendo abituati a convivere con i riti della quadra più amata dagli italiani (vedi il caso recentissimo, di sabato scorso, con le esternazioni dell’allenatore Conte e del Direttore sportivo della Juventus, Marotta).

Da quel momento Mourinho ha scelto il raccoglimento, il silenzio, scandito da un’alleanza mediatica senza eguali, una grande coalizione anti-Inter che attraversa in eguale misura i media e che ha il suo vertice nel caso che va sotto la formula ‘le telefonate di Giacinto Facchetti e la rivisitazione di Calciopoli’. Ma l’allenatore riesce nell’impresa di liberarsi dalle manette virtuali, il gesto simbolico completamente frainteso, vincendo, contro ogni incredulità e scetticismo, il triplete e lasciando l’Italia subito dopo la vittoria.

Il grande allenatore e l’altrettanto grande comunicatore viene rimpianto, non solo della tifoseria interista, ma di tutti coloro – purtroppo sono solo un’esigua minoranza – che hanno scelto come ideale e condotta di vita, il primato dell’intelligenza e della bellezza e, dunque, anche quello dell’etica.

Anche il meccanismo psicologico del rimpianto è estremamente sofisticato; scriva in proposito in un aforisma molto icastico Gilbert Keith Chesterton: “…il modo migliore per amare qualcosa o qualcuno è pensare che si potrebbe perderlo”; nel caso di Mourinho, l’aforisma potrebbe essere declinato con la variazione seguente: “Il modo migliore per farsi amare è far pensare agli altri che potrebbero perderci”. Nelle relazioni sentimentali questo meccanismo prende il nome di ‘sindrome di Romeo e Giulietta’. Una sindrome che, in un giorno non troppo lontano, sarà sanata, perché Mourinho tornerà ad allenare l’Inter per superare l’ultima, estrema sfida, la più difficile, vincere con la stessa squadra per due volte il triplete, impresa mai realizzata al mondo da nessun altro allenatore.

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