A chi si occupa di strategie di comunicazione non può essere sfuggita l’esortazione che Monti ha lanciato ai giornalisti dai microfoni del Meeting di Comunione e Liberazione perché evitino di usare nei media una certa parola. Era dall’epoca del fascismo che non si sentiva censurare, sia pure in modo soft, una parola.

Quale parola? La diciamo o non la diciamo? E diciamola, va: la parola in questione è “furbi”. Per Monti, pronunciare quel maledettissimo aggettivo a proposito degli evasori, in un Paese in cui a tutti i livelli prospera il culto della furbizia, sarebbe come evocare il demone contro cui sembra che soltanto lui stia combattendo.

Può davvero una semplice parola far cambiare le abitudini e le coscienze delle persone? È una vecchia disputa che va avanti dall’epoca di Aristotele. Il filosofo di Stagira sosteneva infatti che non si può convincere qualcuno di ciò che già non sia nelle sue corde. Quindi non basta certamente sentir dire la parola “furbi” perché gli onesti decidano improvvisamente di diventare furbi.

Ma poi, a che serve vietare? Sappiamo tutti come va a finire con il proibizionismo. Vietando quella parola, crescerebbe in modo esponenziale il suo consumo clandestino, nascerebbero organizzazioni che la commerciano illegalmente, i giovani farebbero a gara per procurarsela e condividerla con i loro amici. E alla fine in giro ci sarebbero più “furbi” di prima.

No. Nemmeno questa volta mi è piaciuto Monti. Dite che dovrei prenderla con filosofia? L’ho appena fatto. Anche per questo oggi mi fido più di un greco che di un uomo della finanza internazionale.

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