Vent’anni dopo, come nel feuilleton di Dumas.
Era il 1993 quando i primi sindaci eletti direttamente, in base alle legge 142/90, balzarono sulla scena come moschettieri a difesa dei cittadini. Si chiamavano Francesco Rutelli, Antonio Bassolino, Massimo Cacciari, Adriano Sansa. Una stagione di grandi speranze democratiche, a fronte della caduta di credibilità della politica centrale e di partiti rivelatisi forze di occupazione della società. Ma speranza di breve durata: a parte Sansa (pugnalato alla schiena da politicanti locali che non tolleravano intrusioni nel sistema comunale degli affari), tutti i suoi colleghi misero a frutto l’esperienza civica come trampolino di lancio per carriere personali nei Palazzi del Potere. Seppure con varie fortune.

A distanza di un ventennio torna in campo una nuova generazione di sindaci dei cittadini: lo scorso anno a Milano e Napoli con Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris, ora a Parma e Genova, grazie alle pur sofferte vittorie di Federico Pizzarotti e Marco Doria. Il timore è che, ancora una volta, queste esperienze possano rivelarsi effimere.

Anche perché, dopo la fase idealistica della battaglia elettorale, oggi si trovano a fare i conti con la cruda realtà nella gestione amministrativa delle complessità urbane; muovendosi a tentoni su terreni disseminati di trappole mortali, lasciate in eredità dai loro predecessori, cui si aggiungono maldestraggini varie e qualche figuraccia: Pisapia impastoiato nel pasticcio dell’Expo milanese con relativi vincoli materiali e politici (compreso quello di accantonare la deliberata cittadinanza onoraria al Dalai Lama per non irritare l’importante espositore cinese), De Magistris alle prese con la reiterata perdita di pezzi della propria Giunta (tanto che già si mormora di una sua iniziativa con il collega Emilano per ripetere alle prossime scadenze elettorali il balzo verso Roma di Bassolino), Pizzarotti in sofferenza da emicrania per il rebus insolubile di allestire una squadra di assessori purchessia, Doria a rischio di incombente sgarrettamento per l’insofferente estraneità nei suoi confronti della stessa maggioranza che dovrebbe sostenerlo.

Chi confida nella nuova stagione di democrazia a scartamento civico non può esimersi dal nutrire motivata apprensione. E domandarsi come si possa evitare una nuova delusione.
A tale riguardo forse basterebbe che i nostri nuovi moschettieri si ricordassero che la loro legittimazione nasce dall’essere situati in un luogo: la città, in questa fase storica sede primaria dell’innovazione politica. Magari analizzando come, anche di recente, alcune realtà europee siano state sede di esperimenti innovativi di successo. Riuscendo a rompere l’assedio (ad abbraccio mortale) dei Richelieu della vecchia politica.

Quel “come” si chiama tecnicamente pianificazione strategica. Ossia un processo politico progettuale che parte dalla reinterpretazione del passato civico per favorire un scatto in avanti, grazie alla cooperazione tra interessi locali e al coordinamento pubblico: invenzione di futuro, come si è visto a Barcellona negli anni Ottanta e poi nelle successive applicazioni del modello (da Lione a Stoccarda, a Bilbao).
Qualcosa di sconosciuto dalle nostre parti (ad eccezione di Torino) dove la programmazione urbana si riduce alla destinazione d’uso del territorio, oscillando tra dirigismo burocratico, deregulation e partecipazione cerimoniale.

Giovanni Vetritto, noto studioso della materia, parla di “pianificazione non pianificata”: catena di inadeguatezze che certifica notarilmente il declino delle nostre città.
Infatti, nel Paese dei “cento campanili” la cultura di territorio latita e l’ideale politico è quello del leader decisionista (uomo del destino), condannato rapidamente a mostrare tutti i propri limiti quale risolutore carismatico di problemi.
I nuovi sindaci possono salvare l’esperimento legato al loro nome sapendo essere architetti di coalizioni civiche e catalizzatori di strategie.
Non fenomeni mediatici.

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