“Di cosa ha paura Napolitano? Come mai ha avuto una reazione così abnorme non appena ha saputo dell’esistenza delle intercettazioni che avevano registrato la sua voce? Chi ci dice che queste intercettazioni, irrilevanti per Palermo, lo siano anche per l’indagine di Caltanissetta?’’. Sono le domande di Salvatore Borsellino che ieri mattina, con una memoria di dieci pagine, ha chiesto alla procura di Caltanissetta di acquisire tutte le registrazioni delle conversazioni telefoniche tra Nicola Mancino e il Quirinale. Sia quelle con il consigliere giuridico del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, già depositate agli atti dell’inchiesta di Palermo sulla trattativa mafia-Stato, sia quelle – non depositate e neppure trascritte – con Giorgio Napolitano.

Gli echi dell’attacco istituzionale dell Colle contro la Procura di Palermo, sfociato nel conflitto di attribuzione sollevato dal capo dello Stato presso la Corte Costituzionale, si spostano ora a Caltanissetta, grazie alla mossa del fratello del giudice ucciso in via D’Amelio, intenzionato a sfidare il Colle sul terreno della ricerca della verità: “Napolitano dichiari di cosa ha parlato con Mancino – dice Salvatore – e io recederò dalla mia iniziativa’’. La palla passa ora al procuratore nisseno Sergio Lari che nei mesi scorsi, nella richiesta di rinvio a giudizio su via D’Amelio, non ha individuato “profili di responsabilità penale” nella condotta di Mancino, pur confermando l’esistenza della trattativa, definita “una stagione ingloriosa” del Paese. “Quelle conversazioni servono sicuramente a chiarire il ruolo dell’ex presidente del Senato, indicato da Giovanni Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale della trattativa che accelerò la morte di mio fratello. Spero che questo atto – dice oggi Salvatore Borsellino – spinga il capo dello Stato a rivelarne il contenuto. Purtroppo oggi la mia fiducia in Napolitano non è elevata. In questi anni non ha battuto ciglio sui provvedimenti del governo Berlusconi , che io considero cambiali della trattativa; come capo del Csm non ha reagito agli attacchi contro la magistratura; e oggi ha mostrato questa fretta anomala di interferire nel lavoro della procura di Palermo, costituendo un oggettivo intralcio alla verità”.

 

Salvatore Borsellino è convinto che in quelle telefonate con Napolitano potrebbero nascondersi elementi utili a chiarire l’effettivo ruolo dell’ex ministro dell’Interno a partire dal suo insediamento al Viminale, il 1 luglio 1992. “É da ritenere – scrive Borsellino nella sua memoria – che (al telefono, ndr) Mancino abbia parlato probabilmente in modo più spontaneo e genuino di quanto fatto nel corso dei verbali delle dichiarazioni rese alle procure di Palermo e di Caltanissetta e alla Commissione antimafia”, dichiarazioni che a Palermo gli sono costate l’iscrizione nel registro degli indagati per falsa testimonianza.

E se la procura di Palermo ha depositato un voluminoso faldone di intercettazioni di telefonate tra Mancino e D’Ambrosio avvenute tra novembre 2011 e aprile 2012, per il fratello del giudice ucciso quelle più interessanti si collocano tra marzo e aprile, proprio quando – in occasione del deposito dell’ordinanza del gip di Caltanissetta Alessandra Giunta su via D’Amelio – Mancino avrebbe scoperto che il suo nome era ampiamente citato nelle carte giudiziarie.

É a quel punto che l’ex presidente del Senato precipita in uno stato di preoccupazione, che si manifesta con lunghi sfoghi nelle conversazioni col Colle. “Appare rilevante – scrive Borsellino – la coincidenza temporale fra le intercettazioni delle conversazioni di Mancino raccolte dall’autorità giudiziaria di Palermo, e la divulgazione, attraverso gli organi di informazione, nel marzo 2012, di quanto contenuto nell’ordinanza del gip Giunta firmata il 2 marzo”. Prima che le intercettazioni possano essere distrutte, come chiede il capo dello Stato, occorre per Borsellino che vengano acquisite agli atti dell’indagine di Caltanissetta su via D’Amelio, dove lui è parte offesa, per i necessari approfondimenti. Nella sua memoria, stilata con l’assistenza dell’avvocato Fabio Repici, il fratello del giudice ucciso scrive che “rispetto all’interesse all’accertamento della verità sulla strage di via D’Amelio, soccombe qualunque sollecitazione alla distruzione (peraltro, in forma contraria alla legge) di elementi di prova dei quali, proprio per le caratteristiche del soggetto intercettato (Mancino) deve essere considerata prima facie indispensabile l’acquisizione agli atti del presente procedimento per ogni ulteriore valutazione, prima che quegli elementi di prova dovessero sciaguratamente essere distrutti”.

Da Il Fatto Quotidiano del 24 luglio 2012

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