Silenzio di tomba, occhi incollati al maxi schermo, qualche sorriso di ammirazione e, infine, un applauso liberatorio. L’entusiasmo e la soddisfazione per la scoperta del bosone di Higgs  contagiano anche i fisici dell’Università di Bologna. Questa mattina un’ottantina di loro, tra docenti, ricercatori,  studenti e semplici appassionati, si sono ritrovati nell’aula magna del dipartimento di fisica di via Irnerio per assistere alla presentazione, in diretta streaming dal Cern di Ginevra, dei nuovi risultati dei nuovi risultati ottenuti sulla cosiddetta “particella di Dio“.

Teorizzato 48 anni fa dal fisico scozzese Peter Higgs, il bosone di Higgs permette di far enormi passi avanti sulle teorie che riguardano il funzionamento dell’Universo. In altre parole, la nuova particella spiega come mai tutte le cose nell’universo hanno una massa. Una scoperta epocale, che completa il puzzle delle particelle elementari che costituiscono la materia. Fornendo un tassello fondamentale al Modello standard, la teoria che descrive le particelle elementari e tre delle quattro forze fondamentali note, e con cui i fisici tentano di interpretare l’universo, e di comprendere come funziona.

L’annuncio era atteso da anni e per questo gli scienziati di Ginevra hanno voluto illustrare i risultati al mondo, con una diretta streaming in cui hanno spiegato i dettagli della ricerca e del percorso che ha consentito di raggiungere questo traguardo. Una conferenza stampa seguita con attenzione e orgoglio anche dai fisici dell’Alma Mater. Quattro gruppi di ricerca della sezione bolognese dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare e del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna hanno contribuito con importanti responsabilità alla progettazione e costruzione di tutti i più grossi esperimenti che operano a LHC e stanno conducendo le analisi dei dati sperimentali. Si tratta degli esperimenti ATLAS e CMS, che hanno tra gli obiettivi primari la ricerca del bosone di Higgs e la ricerca di particelle che possano rendere conto della materia oscura che, si presume, permei l’universo. Di ALICE, che studia le proprietà della materia e delle forze nucleari in condizioni di densità estreme simile a quelle che si realizzarono pochi istanti dopo il Big Bang, e di LHCb, che studia minuscole differenze tra i decadimenti di certe particelle e delle relative antiparticelle, con l’obiettivo di comprendere l’asimmetria tra materia e antimateria.

A Bologna si trova poi uno degli 11 nodi della rete planetaria GRID, che permette di utilizzare la potenza di calcolo e di immagazzinamento dei dati di decine di migliaia di calcolatori distribuiti in tutto il mondo, consentendo ai dati provenienti da LHC di essere analizzati.

Nel commentare la scoperta il presidente dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, Fernando Ferroni, ha rivendicato il ruolo della ricerca italiana: “Esperimenti come ATLAS e CMS sono il frutto di grandi collaborazioni internazionali – ha dichiarato Ferroni – La componente italiana in questi esperimenti, nel personale dell’acceleratore e nella direzione del CERN è importante e molto qualificata. Il contributo dell’Istituto nazionale – ha poi aggiunto – è stato decisivo nella costruzione e nella messa in opera di parti cruciali dei rivelatori. Questa scoperta è anche il frutto dell’eccellenza della ricerca italiana in questo campo e dell’entusiastico contributo di tanti giovani ricercatori a tutte le diverse fasi di questa impresa”.

Articolo Precedente

Campi MagnEtici: un festival sui benefici, e non, delle onde elettromagnetiche

next
Articolo Successivo

Università di Bologna, cura dimagrante per enti, fondazioni e partecipate

next