È molto ‘indignato’ Giovanni Puglisi, per usare un termine tanto in voga adesso quando si parla di finanza. La fondazione Banco di Sicilia che lui presiede, azionista di Unicredit con una quota dello 0,32 per cento, ha deciso all’ultimo momento di non partecipare al maxi aumento di capitale della banca da 7,5 miliardi di euro che è ufficialmente partito oggi con il placet del consiglio d’amministrazione. Le tecnicalità, in sintesi, prevedono l’emissione di 2 nuove azioni ogni vecchia già in circolazione, ordinaria o di risparmio, che potranno essere acquistate dai possessori dei diritti al prezzo di 1,943 euro l’una. Con uno sconto, quindi, del 43 per cento sul prezzo dei titoli attualmente scambiati in Borsa. I diritti di sottoscrizione saranno scambiati a Piazza Affari dal 9 gennaio fino al 20, e saranno esercitati fino al 27 dello stesso mese, data nella quale l’aumento si chiuderà.

“Abbiamo il 92 per cento delle nostre attività investite nei titoli Unicredit, che valevano 7 euro quando diventammo soci post fusione della banca milanese con Capitalia, mentre ora valgono 0,58 euro (o 5,8, post raggruppamento delle azioni 10 a 1, ndr.)” dice Puglisi a ilfattoquotidiano.it . “Una distruzione di valore senza pari, che impatta sull’attività della fondazione in modo drammatico. La nostra finalità è ridistribuire risorse sul territorio, ma negli ultimi anni abbiamo solo messo mano al portafoglio senza ricevere pressochè nulla. E anche nel 2012 sarà così, perché il dividendo è stato escluso. In questa situazione abbiamo deciso di non aderire, per non drenare ulteriori risorse che servono a completare i restauri dei palazzi acquisiti negli scorsi anni dalla fondazione per farne dei musei. Alla luce anche della maxi svalutazione da 10 miliardi euro dello scorso novembre io mi chiedo se sia il caso di continuare ad avallare questo consiglio d’amministrazione e questa linea strategica pagando ulteriormente. E mi domando anche se quella svalutazione sarà l’ultima, o se ce ne saranno di ulteriori, molto dolorose”. Un cda, giova ricordarlo, pressoché identico a quello guidato da Alessandro Profumo individuato da molti come il principale artefice dell’attuale situazione dell’istituto.

Che giovi o meno si vedrà in futuro, che fosse necessario data la situazione del capitale era certo, e la richiesta delle autorità bancarie europee è stata molto chiara, ma secondo un’elaborazione dell’Ufficio Studi di Mediobanca, dal 1998 al 2011 (c’era Profumo) i soci hanno operato ricapitalizzazioni onerose per un totale di 11,86 miliardi di euro ricevendo dividendi in cambio per 14,96 miliardi di euro. Il conto era quindi ancora a favore dei soci, ma a partire dal 2009 gli aumenti sono stati pesanti e i dividendi pochi. Con l’operazione attuale, poi i soldi iniettati saranno ben di più di quelli ritirati. Il Bancomat si è inceppato.

Anche la partecipazione della Regione Sicilia è in forse in quanto tutt’ora in fase di valutazione, e se non dovesse esercitare i propri diritti il peso già esiguo della regione all’interno della banca di Piazza Cordusio diminuirebbe di molto nonostante il gruppo sia presente in forze sull’isola con il Banco di Sicilia. Così com’è destinato a diminuire anche quello di un’altra piccola fondazione, la Cassamarca di Treviso, guidata dall’ultraottantente Dino De Poli alle prese con problemi di liquidità, che non dovrebbe partecipare a meno di ripensamenti dell’ultimo minuto.

Le fondazioni maggiori come Torino, Verona, Bologna oltre a Luigi Maramotti, proprietario di Max Mara, e le assicurazioni tedesche Allianz, hanno deciso invece di aprire i cordoni della borsa e finanziare l’operazione anche se con quote minori rispetto a quelle di spettanza, tranne Verona presieduta da Paolo Biasi (famiglia vicina all’Opus Dei) che parteciperà appieno. Torino (vicina all’onnipresente Fabrizio Palenzona) finanzierà metà dell’aumento, peraltro, prendendo soldi a prestito (da Unicredit stessa?). L’obiettivo è quello di mantenere per quanto possibile la presa sull’istituto, avendo ben chiaro il pericolo che i grandi flussi monetari in viaggio verso l’Europa da Cina e Medio Oriente potrebbero cambiare la geometria dei pesi in assemblea in modo molto marcato, come ha ricordato lo stesso Puglisi. E addio banca al servizio dei territori e clienti italiani, così bisognosi in questo periodo di crisi.

A tal proposito sembra che la Banca centrale libica, azionista col 4,98 per cento dei titoli, aderirà pro quota con un esborso da sola di circa 350 milioni di euro restando ben salda tra gli azionisti maggiori. Nei giorni scorsi, non a caso, Unicredit ha dichiarato in un comunicato di aver ripreso l’attività nel Paese nordafricano di cui aveva finanziato le fazioni ribelli a Gheddafi senza però specificare con quanto denaro e con quali modalità.

L’operazione andrà comunque a buon fine: un manipolo di istituti di credito internazionali, tra cui Mediobanca che ha come principale azionista proprio Unicredit, si è impegnata a comprare tutti i titoli eventualmente non venduti. Ne fanno parte, tra gli altri, Bank of America, Merrill Lynch, Banca IMI (gruppo IntesaSanpaolo), Bnp Paribas, Credit Suisse, Deutsche Bank, HSBC, J.P. Morgan, Société Générale e UBS. Il gotha delle banche mondiali che potrebbe essere, tutto insieme, il primo azionista di Unicredit post’operazione, che a questi prezzi dovrebbe essere allettante dal punto di vista prettamente finanziario ed è forse per questo motivo che il consorzio di garanzia è così ampio.

A metà seduta odierna il titolo Unicredit veniva scambiato in calo del 9 per cento abbondante rispetto alla chiusura di ieri, a 5,72 euro per ogni quota. Un avvio in forte calo comunque prevedibile dato che le turbolenze sulle azioni continueranno anche nei prossimi giorni con il susseguirsi di rumors sui possibili nuovi soci.

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