I fondi destinati alle vittime del disastro di Fukushima dirottati per la caccia alle balene. Non è uno scherzo, succede in Giappone dove la sua flotta, diretta verso i mari antartici per catturare almeno mille cetacei nei prossimi tre mesi, è stata finanziata con il denaro originariamente raccolto per aiutare le popolazioni di pescatori colpite dal terremoto e dalle radiazioni.

A denunciarlo sono gli ambientalisti di 18 organizzazioni giapponesi, per cui “è scandaloso che il governo attinga dai contribuenti denaro per un programma non necessario, non richiesto ed economicamente poco significativo”. La caccia alle balene “è un marchio oscuro per la reputazione internazionale del Giappone e un buco nero per il denaro dei contribuenti”, ha denunciato Junichi Sato, direttore esecutivo di Greenpeace Japan: “Gettare miliardi di yen in questo periodo di crisi è assolutamente vergognoso. Il Paese non può permettersi di sprecare risorse per l’operazione antartica quando i suoi cittadini soffrono in patria”. E aggiunge: “Stiamo veramente toccando il fondo, sia per la deprecabile industria baleniera che per i politici insensibili che la sostengono”.

Le proteste delle Ong giapponesi erano già iniziate ai primi di novembre, quando il governo di Tokyo decise di stanziare circa 2,3 miliardi di yen in più (oltre venti milioni di euro), per la caccia ai giganti del mare. Soldi pubblici che, aggiungendosi ai circa sette milioni di euro già dati dal governo al programma di caccia baleniera, per gli ambientalisti si sarebbero dovuti destinare ad interventi di ben maggiore importanza per i giapponesi. Come, appunto, quelli necessari per riportare la zona di Fukushima ad una situazione più prossima alla normalità.

Molti gruppi spontanei, non solo ambientalisti, hanno scritto al primo ministro Yoshihiko Noda per protestare contro la scelta di usare il recovery fund in questo modo. Anche Avaaz ha lanciato una petizione per “arrestare immediatamente i sussidi all’industria baleniera, dando invece priorità all’assistenza delle famiglie che ancora soffrono le conseguenze del terremoto e del disastro nucleare”. L’agenzia ittica giapponese, invece, ritiene legittima la scelta di Tokyo di destinare ai suoi associati questi fondi, in quanto fra le realtà distrutte lo scorso 11 marzo figura anche un porto baleniero, utile alle città costiere coinvolte nello tsunami a ritornare “economicamente prospere”.

Ma i peggiori problemi economici sembra averli proprio l’industria baleniera. La caccia commerciale ai grandi mammiferi marini, sospesa in Giappone già nel 1987 (ma perpetrata in barba ai regolamenti internazionali in quanto trasformata in “spedizioni di caccia a scopi scientifici”), non è più un’attività redditizia da parecchio tempo. Il motivo è la progressiva caduta del consumo di carne di balena, di cui già in questo momento sono immagazzinate, surgelate, centinaia di tonnellate in eccesso. Un tracollo che ha portato il programma baleniero a contrarre debiti per oltre diciassette milioni di euro, impossibile da pagare senza il supporto dei fondi pubblici.

A tal proposito Robbie Marsland dell’associazione londinese International Fund for Animal Welfare ha affermato: “Siamo delusi anche se non sorpresi che la flotta giapponese è nuovamente partita per l’Antartide per macellare più balene. La realtà, però, è che questa industria sta morendo e questo è il suo ultimo anelito”. Un’economia che non dà più profitto, dunque, oltre che essere all’origine di cattive politiche “sia per i giapponesi che per balene”.

Anche la Sea Shepherd Conservation Society è pronta ancora una volta a dare battaglia. La spedizione della flotta giapponese, stima l’organizzazione, porterà infatti all’uccisione di oltre 900 balenottere: “L’anno scorso li abbiamo inseguiti fino in Sud America ed è stato allora che hanno deciso di ritornare indietro prima del previsto”, ha ricordato Paul Watson, capo e fondatore di Sea Shepherd: “Li abbiamo già sconfitti economicamente. Ora dobbiamo sconfiggerli politicamente”.

Oltre al crescente malcontento interno, la strage di balene provoca anche frizioni internazionali: ormai da qualche anno, il Paese del Sol levante sempre più spesso si trova al centro di conflitti con nazioni come l’Australia o la Nuova Zelanda, per cui i mari antartici sono considerati un santuario dei cetacei. Il governo australiano ha infatti presentato un’azione legale alla Corte internazionale di giustizia per porre fine al fenomeno dello whaling, ma non ha fortunatamente accolto la proposta di alcuni “eco-pirati” che, per garantire il rispetto delle regole in mare aperto, hanno addirittura chiesto supporto militare dalle unità navali di Canberra. Nei prossimi tre mesi estivi si prospettano comunque duri scontri, nei mari del sud.

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