Uno scontro tra gruppi criminali di spessore, una guerra per il controllo di “grossi affari nella capitale”, ha spiegato ieri il procuratore aggiunto di Roma – responsabile per la Dda – Giancarlo Capaldo. Il duplice omicidio di Ostia non è dunque un episodio riconducibile alla piccola e fisiologica criminalità di una metropoli, ma l’ultimo tassello di una guerra combattuta ormai apertamente, iniziata da anni, che sta rimettendo in gioco l’equilibrio della presenza tradizionale e consolidata delle cosche nella capitale.

Roma è prima di tutto un mercato dove investire; ma è anche lo snodo dei contatti politici, della vicinanza con il palazzo, dei locali frequentati dai salotti dei poteri forti, controllati strategicamente da tutte le mafie. Come il lussuoso Cafè de Paris a via Veneto, confiscato lo scorso luglio alla cosca degli Alvaro, come le villette liberty ai Parioli, o i ristoranti della movida. Qui passa l’intelligence di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra.

C’è poi la metropoli estesa, la Roma capitale, le aree delle grandi periferie. Quartieri dormitorio da conquistare, passo dopo passo, territorio dopo territorio. Estorsione dopo estorsione, attraverso le bische, l’usura e la cocaina.

Dietro il susseguirsi di esecuzioni nelle vie di Roma non c’è semplicemente una guerra tra bande, un revival del Romanzo criminale della banda della Magliana. Per capire quello che accade nel quartiere Prati o nell’estrema periferia di Tor Bella Monaca occorre partire dai territori in via di espansione della provincia, dove la speculazione edilizia macina milioni di euro giorno dopo giorno, dove i grandi appalti attirano gli investimenti silenziosi delle mafie. Ad esempio San Cesareo, alle porte di Roma, agglomerato di case e piccoli artigiani, punto di collegamento con l’autostrada Roma-Napoli. Due anni fa i carabinieri del gruppo Frascati ritrovavano il cadavere Domenico Marsetti, 32 anni, freddato con un unico colpo alla nuca. Un’esecuzione, fredda, avvenuta nella campagna attorno al piccolo centro della provincia di Roma. Quell’uomo era fuggito appena tre giorni prima dalla Calabria, dove aveva ucciso un membro della famiglia Alvaro, potente cosca di ‘ndrangheta, per un futile motivo. Si era rifugiato nella periferia est di Roma, sicuro di essere protetto dalla rete di amici e parenti. Ai killer sono bastate 48 ore per trovarlo e ucciderlo. Appena due giorni, mentre anche le forze dell’ordine erano sulle sue tracce. Segno di un controllo del territorio e di una presenza militare e di informatori capillare, che nulla ha da invidiare alle locali storiche del reggino o della locride.

Di segnali la provincia di Roma ne ha visti tantissimi negli ultimi tre anni, spesso sottovalutati. Dicembre 2008, Velletri, città dei Castelli romani sostanzialmente tranquilla, anche se tradizionalmente colpita dall’usura e dal traffico locale di stupefacenti. Pochi minuti dopo le 20 Luca De Angelis, considerato un boss locale di medio calibro, rimane ucciso davanti all’ingresso di casa. Un agguato tipicamente mafioso, quattro colpi sparati contro il collo e contro il viso, senza neanche dargli il tempo di reagire. Inizialmente le indagini della squadra omicidi di Roma portano all’arresto di un quindicenne, sospettato di essere l’autore dell’agguato. Poi il ragazzo fu prosciolto e, durante l’istruttoria dibattimentale davanti al Tribunale dei minorenni di Roma, apparve il nome del gruppo di camorra dei Senese. Forse una partita di droga non pagata, forse un contrasto per il controllo del territorio. Passano appena tre mesi dall’agguato e un altro pregiudicato, legato a De Angelis, è colpito a Roma, nella sua abitazione. Si salva, nonostante i colpi di arma da fuoco sparati ancora una volta verso il viso, dopo aver bussato in piena notte alla porta della sua residenza. E ancora, più recentemente, nella zona di Cecchina, a una ventina di chilometri dal centro di Roma, lo scorso maggio un commando di tre killer uccide due piccoli trafficanti di droga locali, ferendone altri due. Tra i sospettati di aver fatto parte del gruppo di fuoco c’è Ausonia Pisani, 43 anni, figlia di un generale dei carabinieri, e due catanesi da tantissimi anni attivi nella zona sud della capitale.

C’è poi la via del sud, quell’asse che attraversa la provincia di Latina, partendo da Borgo Montello, dove i casalesi avevano diverse proprietà, arrivando fino alla città di Fondi e fino al porto di Formia. Questo territorio è da almeno due decenni fortemente controllato da gruppi di ‘ndrangheta – qui hanno agito i figli del capobastone di Reggio Calabria Domenico Tripodo, ucciso nel 1976 nel carcere di Poggioreale – e di camorra. A Formia si sono rifugiati i Bardellino, dopo la guerra della fine degli anni ’80, che vide vincente la fazione degli Schiavone.

E infine Fondi, nome trasformatosi in simbolo dell’incapacità della politica nel combattere le mafie, la città che poteva diventare il secondo comune sciolto per mafia nel Lazio, dopo Nettuno, zona della ‘ndrina dei Gallace Novella. C’è un dettaglio chiave nella vicenda dell’amministrazione comunale salvata in extremis dal governo Berlusconi. Un immobiliarista coinvolto in una delle inchieste della Dda su un giro di usura aveva tra i beni poi sequestrati un villino ai Parioli. Una sorta di sede di rappresentanza, perché poi gli affari veri inevitabilmente passano per la capitale.

L’elenco potrebbe proseguire con decine di nomi e circostanze, per arrivare all’agguato dell’altra sera a Ostia, in una lunga scia di sangue. Forse certi equilibri – nati con la fine della banda della Magliana, con una capitale gestita alla pari dalle mafie, senza nessun vero predominio – si sono rotti. Gli affari milionari dell’espansione edilizia, dei grandi appalti, dell’industria del divertimento – che spesso include bische e cocaina – stanno riaprendo i giochi.

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