Il giorno più disastroso della sua vita si è consumato nella sala da pranzo di Arcore, accanto ai pochi dei quali ormai si fida: Fedele Confalonieri, il fratello intelligente che non ha mai avuto, e i figli di primo letto, Marina e Piersilvio. Quando ha chiamato l’avvocato Niccolò Ghedini sapeva che il suo destino era già segnato, sapeva che il giorno successivo sarebbe andato al Quirinale per dimettersi o, come ha fatto, annunciare le dimissioni. Da Ghedini voleva risposte legali, dai parenti il segno che non sarebbe stato solo.

Solo. Attorno alla sala da pranzo, la stessa in cui in questi 17 anni tra i commensali si sono alternati nani, ballerine e capi di Stato, giornalisti e menestrelli, prostitute e aspiranti fidanzate, Silvio Berlusconi ha capito di essere un uomo solo, costretto a non fidarsi più di nessuno: Giulio Tremonti lo aveva perso da tempo, Umberto Bossi, nonostante le prove di fedeltà, è ormai influenzato e influenzabile non si sa bene neppure da chi, e Gianni Letta non gli diceva più quello che Silvio si voleva sentir dire.

Negli ultimi mesi non ha apprezzato neppure i fedeli servitori come Giuliano Ferrara e Augusto Minzolini: il primo è l’antitesi di quello che è Berlusconi, si è costruito un’intelligenza artificiale grazie alla capacità – tipica degli ex comunisti – di dire quello che pensa, ma sempre con un secondo fine. Il direttorissimo, come lo aveva soprannominato, nelle stanze romane riusciva a essere un cronista mastino, ma non ha mai avuto la dialettica col potere che Silvio si aspettava da lui.

Così è rimasto solo. E gli otto voti che sono mancati li aveva messi in conto. Quello che più gli hanno fatto male sono le defezioni dei soldati che fino a un anno fa erano pronti a giurargli eterna fedeltà sull’altare di Arcore: Gabriella Carlucci, certo, ma anche la modenese Isabella Bertolini e con lei tutti quelli che si erano messi in malattia causa mal di pancia, da Angelo Stracquadanio a Fabio Gava: lo avrebbero votato, ma sapeva già di averli persi.

E con loro se ne sarebbero andati tutti gli altri. Dicono che nelle ultime ore mal soffra anche Angelino Alfano, colpevole secondo il premier dimissionario di non essere riuscito a creare in questi mesi quella muraglia che avrebbe dovuto difenderlo. Non c’è stato il tempo, probabilmente, ma Berlusconi si aspettava che lo facesse. Non gli è piaciuto nemmeno il sistema usato da Fabrizio Cicchitto: da un ex piduista e socialista si sarebbe aspettato molto di più.

Non avrebbe mai voluto sentir dubbi da parte di Denis Verdini, che di debiti col Cavaliere ne aveva. Si è trovato solo, accomunato nella fine a quasi tutti gli imperatori, il ruolo che Silvio Berlusconi aveva sognato fin da quando nel dicembre del 1993, in un supermercato di Casalecchio di Reno, decise che sarebbe sceso in campo. Anche perché già allora l’obiettivo ce l’aveva chiaro: entrare un giorno al Quirinale, il colle più alto di Roma, accompagnato dai cavalli bianchi e dai corazzieri, arricchito di poteri, restare appeso alle pareti per chissà quanti secoli, quando e semmai il signore che lo aveva unto l’avrebbe richiamato.

Sì, perché l’uomo si sentiva intoccabile, sapeva che nell’italietta che si era costruito da Milano Due a Drive In, con un assegno avrebbe potuto comprare tutto, anche il colle. Ma non ce l’ha fatta. Non ci saranno quadri alle pareti, ma la foto di un uomo solo, in una macchina che lo accompagna dal presidente della Repubblica per rassegnare le dimissioni. Ha guadagnato qualche giorno di tempo, giusto per trattare l’impunità sua e garantire le sue aziende dall’assalto delle banche. Ma non era quello che voleva. Il mondo lo dimenticherà presto, i libri di storia per le scuole medie racconteranno una storia che non ha ancora un epilogo, ma sappiamo già che comunque sarà grottesco.

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