Prima che si spengano le luci del varietà, l’arte del gran finale è il sigillo di ogni buona messa in scena.

Il pubblico ha quell’attenzione forzata che nasconde una voglia, una necessità di sipario e sui volti degli attori c’è già l’ombra dei camerini che ne disegna il trucco fino a che la maschera non diventa, per eccesso, rivelazione: ecco la vecchiaia, l’idiozia, la ferocia. Ecco deputati e senatori farsi i conti delle convenienze: fare la crisi, restando disoccupati e con il rischio di non essere rieletti? O puntare ad un governo tecnico e farsi gli ultimi stipendi? Ecco l’opposizione, divisa ma ancora divisibile, che non sa trovare l’espressione per coniugare l’urlo di vittoria per un governo nemico che cade e l’onda di angoscia per quel futuro che potrebbe finire, eterna vittima innocente, proprio nelle loro mani.

Ecco Silvio, con l’arroganza consunta fino a diventare la mossetta isterica di un capocomico che non sa più il copione e ci infila un vecchia barzelletta, una patetica bugia, un sorriso tirato con i muscoli del collo. Ecco la folla, i figuranti, le comparse. Noi. Che siamo pubblico ma siamo finiti, quando tutto lo spazio è diventato palcoscenico, proprio lì, sotto le luci. E improvvisamente ci accorgiamo che siamo anche noi in questo finale. Anche noi moriamo o dormiamo o forse russiamo.

Di Paolo Aleandri

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