“Io ho quello che ho donato”, diceva Gabriele D’Annunzio ispirandosi a quel “Hoc habeo quadcumque dedi” del poeta latino Rabirio, contemporaneo di Augusto, citato da Seneca nel VI libro del De beneficiis. Vale per gli uomini ma vale soprattutto per le nazioni. Perché la ricchezza di un popolo non è data da quel che riesce ad accaparrare ma dall’eredità che riesce a lasciare.

Pensare a queste cose e guardare a quel che l’Italia sta facendo a Lampedusa lascia in bocca il sapore disgustoso della vergogna. Perché non è possibile che una grande nazione come la nostra non sia in grado di accogliere con un minimo del decoro qualche migliaio di disperati. Non è possibile far morire un bambino, un figlio del mediterraneo, in mare aperto. Non è possibile, nemmeno, accatastare uomini come se fossero carne da macello, come se fossero rottami di un mondo che non c’interessa. E nemmeno negargli un tocco di pane come una volta si faceva coi pellegrini. Quando l’ospitalità non è più sacra, l’inciviltà è assicurata. Ma il piccolo e sciatto egoismo dimostrato in questi giorni da chi ci governa è un atto di accusa che non potrà essere derubricato a semplice realpolitik di marchio leghista. C’è molto di più.

C’è il dolo di chi non vuole risolvere i problemi per utilizzarli elettoralmente. C’è la malafede di chi sa di poter sopravvivere politicamente solo grazie alla legittima paura della gente. E allora fa comodo trasformare i migranti, profughi o clandestini che siano, in un esercito lurido e invasore. Fa molto comodo trattarli come bestie in modo da trasformarli, agli occhi degli italiani, in bestie. No, non è solo inadeguatezza quella che l’Italia governativa sta dimostrando a Lampedusa. Non c’è solo l’incapacità di prevedere quel che serve per affrontare l’emergenza. Non solo colpa. Sarebbe un giudizio troppo benevole. C’è, piuttosto, l’investimento elettorale sulla carne dei più deboli. C’è l’infamia di chi, pur di difendere il proprio potere, getta la propria anima all’inferno.

“Io ho quello che ho donato”, diceva D’Annunzio. Ecco, noi, purtroppo, non abbiamo niente. E siamo meno di niente.

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