Un tuffo all'improvviso, poi il migrante esce dall'acqua con un grosso polipo. Tra gli applausi: "E' la nostra cena"

E’ sera quando nell’inferno di Lampedusa spunta una buona notizia. Dal barcone partito dalla Libia con 350 migranti a bordo è stata salvata una donna eritrea. Ha partorito da poco e sta male, un elicottero della nave della Marina militare “Etna” la salva. Lei e il suo bambino vengono portati all’ambulatorio di Lampedusa (sull’isola non c’è un ospedale). Arriva che sono da un pezzo passate le otto di sera. Perde sangue e i medici le fermano l’emorragia, il piccolo, invece, ha ancora il cordone ombelicale attaccato. Poche decine di minuti e mamma e figlio possono offrirsi alla vista dei giornalisti. Lei è giovane, 26 anni, le sofferenze patite non sono riuscite a cancellare i segni di una bellezza antica, il bambino è un fiore. Lo chiamano Yeab Sera, dono di Dio, in arabo. Nel cortile dell’astanteria alcune donne di Lampedusa hanno portato tutine, pannolini, medicine utili per il neonato. Sono raggianti come se fosse nato un loro figlio. “Siamo felici – spiega un signora – perché è il primo bambino che nasce sull’isola dopo anni”. Sì, perché a Lampedusa non si partorisce, i figli qui nascono tutti a Palermo. E’ andata meno bene ad un’altra donna del barcone dei disperati. Anche lei era incinta, ed anche lei è stata soccorsa con l’elicottero e portata a Lampedusa. Non ce l’ha fatta a diventare mamma, il freddo, la paura, la mancanza d’acqua patita in ore e ore di navigazione su un legno fradicio hanno ucciso il suo bambino.

Storie di disperazione da Lampedusa, dove dalle otto di ieri sera sono arrivati altri 700 disperati. Cento in meno dei trasferimenti che un traghetto privato assicurerà questa mattina. E così sull’isola della vergogna ci sono almeno 4mila tunisini. Gente esasperata costretta a vivere in condizioni disumane. Abbiamo fatto un giro sull’isola, una via Crucis che è iniziata nella Stazione marittima.

Qui d’estate arrivano corpi profumati e belli, volti allegri di gente in vacanza. Ora è un dormitorio dove sono ammassate centinaia di persone. I cessi sono intasati, l’odore di merda e piscio è insopportabile. I giacigli di cartone e coperte sono marci di sudore. Fuori tre cessi chimici collassati da tempo. “Stamattina – ci dice un volontario della Croce Rossa ormai all’esasperazione – hanno svuotato quintali di merda”. Sopra la Stazione marittima c’è il Darfur. Una tendopoli di stracci e fogli di plastica, cassette per il pesce e cartoni. Da lassù si vede il molo, o meglio, le migliaia di corpi tunisini che lo occupano. Molti hanno dormito all’aperto, tutti aspettano il pranzo e il numero della salvezza. Verranno portati con i bus al Cie dove gli verrà dato un nuovo numero. Chi è sbarcato prima parte prima per l’Italia. E’ ora di pranzo quando arriva un altro barcone con 130 disgraziati, tutti maschi, tre sono minori, uno sta male e lo portano via in ambulanza. Anche loro si mettono in fila per prendere una busta gialla di plastica. La apriamo: il pranzo di oggi prevede un piatto di plastica, ricoperto di plastica, con dentro un paio di cucchiaiate di riso al pomodoro, due panini e una bottiglia di acqua. Fine. “Questo ci dà l’Italia, un grande Paese che costringe migliaia di uomini a vivere come animali. Noi siamo un popolo povero, ma alla frontiera di Ras El Jadir, abbiamo costruito una tendopoli civile, assicuriamo un pasto decente a 90mila profughi dalla Libia”. Il signor Lotfi è partito da Sfax, in Tunisia ha lasciato due figli e una moglie, vuole andare in Francia, si guarda attorno e allarga le braccia. “Non mi aspettavo tutto questo”. Meglio non dirgli che a pochi passi da noi, quegli enormi Tir parcheggiati con la scritta “Ministero dell’Interno” contengono tende e docce, cessi chimici e attrezzature.

Non le hanno scaricate perché i lampedusani giorni fa hanno protestato. “La nostra isola non può diventare un campo profughi”. La politica si è fermata e i Tr sono lì, chiusi e sorvegliati dai bersaglieri. E oggi Lampedusa è un Lazzaretto a cielo aperto. “Siamo pochi, qui se scoppia un casino ci buttano a mare. Sarà guerra civile”, si sfoga un giovane finanziere da ore sotto il sole. Lampedusa è pronta ad esplodere, la politica dovrebbe tacere o pronunciare parole sobrie. E invece, Raffaele Lombardo, governatore di una Regione senza bussola, parla e le parole le sbaglia tutte. Qualcuno, forse un immigrato, ha occupato un suo casotto in campagna e lui è arrabbiato assai. “Lo avevo detto che bisognava uscire col mitra”. In mattinata arriva a Lampedusa. Speriamo bene! Abdel, invece, a mare si butta davvero. E’ un lampo. Da una ventina di minuti è sul ciglio del molo e fissa l’acqua, vede qualcosa, tira via maglietta e pantaloni e si lancia. Un’immersone rapida e riemerge: in mano ha un polipo dei cinque chili almeno. I suoi compagni applaudono. “Questo è il nostro pranzo”. Si ride, ma solo per un attimo.

Area marina protetta, qui, in locali angusti, anche la scorsa notte hanno dormito buona parte dei 200 minori arrivati dal mare. “Non è vietato, ma non entrate che è meglio”, mi dice un volontario. Entro con un dottore di “Medici senza frontiere”. Il liquido giallo e puzzolente che ha allagato le stanze ci arriva alle caviglie, il puzzo è insopportabile. In fondo a questa laguna putrida un ragazzo tunisino tormenta i tasti di un pianoforte. Neder Suai ha 15 anni, parla solo arabo e ci fa capire che ha male al piede. Toglie scarpa e calzini e ci mostra un arto livido, tumefatto, le dita piegate, avrebbe bisogno di un paio di scarpe più comode. Il medico che ci accompagna scuote la testa: “Va portato subito in ospedale”. I minori ora li hanno portati in una casa della fraternità della Parrocchia e nella ex base militare Loran. Andiamo. C’è la recinzione, un cancello e dietro le camerate. Operai stanno rinforzando le difese con filo spinato nuovo di zecca. I ragazzini ci parlano con le dita aggrappate al reticolato. “Io voglio tornare a casa, ho sbagliato, voglio la mia famiglia”. Salah Eddin ha 15 anni e viene da Zarzis, un asciugamani bianco sulla testa a proteggersi dal sole. Gli occhi annegati nelle lacrime. Nel suo sogno italiano il filo spinato non c’era.

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