NEW YORK – Se in Italia la gestione delle slot machine può essere affidata ad una società controllata da un trust offshore negli Stati Uniti, nonostante i film su casinò e gangster, i controlli per entrare nell’industria del gioco sono rigorosissimi.

Chi vuole inaugurare una qualsiasi attività legata all’azzardo e guadagnare sui tavoli da poker e blackjack deve dare il suo assenso all’apertura di un’indagine su se stesso e pagarla di tasca propria. E non poco: 63 dollari all’ora, più spese degli investigatori. I suoi conti correnti bancari vengono setacciati a priori. I suoi manager e familiari possono essere interrogati. E chi aspira a una licenza deve persino dichiarare quanti soldi abbia depositati (e dove) in ogni parte del mondo.

Solo dopo questo “screening” arriva l’ok delle autorità. Difficile, quindi, immaginare che le società del gioco possano attecchire le loro radici in esotiche isole caraibiche.

Negli Usa, ma la situazione cambia da Stato a Stato, una società come la Bplus, già Atlantis World, che in Italia controlla il 30 per cento del mercato da 30 miliardi di euro delle slot machines e sta entrando con la stessa quota in quello delle videlotteries di nuova generazione, non avrebbe una vita troppo facile.

La Bplus, prescelta dall’Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato come concessionario della riscossione del prelievo erariale ha infatti una struttura societaria non trasparente. Al suo vertice ha un trust basato nelle isole dei Caraibi (e una società intestata allo stesso professionista caraibico, James Walfenzao, che scherma la proprietà effettiva della casa di Montecarlo abitata da Giancarlo Tulliani). Una struttura così complessa che, a Il Fatto Quotidiano, il direttore del settore giochi di Aams ha dichiarato di non essere in grado nemmeno di sapere chi sia la persona fisica beneficiaria della società concessionaria dello Stato. L’unico proprietario noto, per sua stessa dichiarazione, è Francesco Corallo, figlio del più noto Gaetano, catanese e titolare di un gruppo con base alle Antille olandesi che controlla una mezza dozzina di casinò tra i Caraibi e il Centroamerica.

Ma se Corallo decidesse di sbarcare negli Stati uniti solo per aprire un casinò si troverebbe di fronte un trattamento ben diverso.  In America casinò e slot machine rientrano in quello che in maniera si chiama “gambling”, settore che viene normato stato per stato. Anche se i controlli possono essere più o meno severi, la linea di condotta è in tutti i casi parecchio rigida. Vediamo cosa succede in alcuni stati.

In Michigan tutto passa sotto la lente del “gaming control board”, organo interno al ministero del tesoro statale. Il board controlla i dettagli più minuti: vuoi aprire un casinò? Verranno vagliate, innanzitutto, le eventuali donazioni politiche dei tuoi figli, di tua moglie, di mamma e papà, e di altri parenti, vicini e lontani. Questa “background investigation” – che dovrebbe scoprire eventuali legami con la criminalità organizzata – costa all’aspirante gestore almeno 50 mila dollari. Se le autorità spendono di più, si pagherà di più.

ln Colorado l’aspirante gestore di casinò deve sobbarcarsi, tra i costi iniziali, anche quello degli investigatori che fanno luce sul suo presente e il suo passato. Questi vanno pagati 63 dollari all’ora, cui vanno aggiunte le spese di trasporto, di vitto e di alloggio degli stessi investigatori. Gli aspiranti manager, poi, ricevono una lettera con la quale vengono “messi al corrente di alcuni fatti”. Ad esempio che “l’industria dei casinò, in Colorado, è uno dei settori più controllati dello stato, perché i cittadini vogliono che essa sia libera da qualsiasi traccia di corruzione o truffa”. Per questo “i regolamenti dell’industria vengono presi molto sul serio, soprattutto per quanto riguarda le licenze, che sono un privilegio”.

Il “gaming control board” che incute più timore, comunque, è quello della Pennsylvania. Per aprire un centro per il gioco vanno studiate e riempite ben settantacinque pagine. Bisogna inserire non solo informazioni su genitori, suoceri, fratelli, sorelle e relativi partner, ma anche su chiunque abbia vissuto con l’aspirante gestore negli ultimi dieci anni. Si richiede l’elenco dettagliato di tutti i lavori fatti negli ultimi vent’anni, anche part-time, senza dimenticare le partecipazioni in società. Vanno poi preparate lettere di referenza che possano dimostrare l’onestà degli affari che verranno aperti, e perfino dettagli sulla salute (ed eventuali dipendenze da alcolismo) del candidato. Viene chiesta l’autorizzazione a setacciare conti correnti bancari dentro e fuori dagli Stati Uniti. E per non farsi sfuggir nulla, le autorità della Pennsylvania chiedono la prova calligrafica e foto che mostrino “ferite, segni e tatuaggi visibili”. Insomma, non deve sfuggire proprio niente.

Insomma, forse l’età dei gangster è tornata in auge grazie al successo della serie televisiva “Boardwalk Empire”, ambientata durante il Proibizionismo, quando alcol ed azzardo potevano davvero creare un impero, ma i ruggenti anni Venti sono ormai lontani. Il motto del serial, in onda da qualche settimana negli Usa, dice che allora “i fuorilegge diventarono re”. Qualcosa che difficilmente può ripetersi adesso.

Certo, dalle roulette e dal poker i soldi saltano ancora fuori: i profitti dell’industria dell’azzardo, tolte le vincite dei giocatori, si aggirano almeno attorno ai 100 miliardi di dollari l’anno. Dei cinquanta stati dell’Unione, sono 19 a considerare i casinò un’attività paragonabile alla libera impresa, pur se pesantemente normata.

Le case da gioco sono circa mezzo migliaio, e si prendono una buona fetta dei profitti dell’azzardo (circa un terzo dei 100 miliardi). Il Nevada è l’unico stato che permette l’azzardo senza alcun tipo di restrizione. Per il resto, invece, i casinò si possono aprire in determinate aree geografiche (come Atlantic City in New Jersey, o Tunica in Mississippi).

Proprio Atlantic City è la cornice della serie “Boardwalk Empire”. La città, che come suggerisce il nome si affaccia sull’oceano, rischiava di morire a metà del Novecento, ma la legalizzazione del gioco d’azzardo la salvò, attraendo migliaia di persone che popolano ogni giorno la famosa passeggiata sul mare (il “boardwalk” che ha appunto ispirato Martin Scorsese, regista della puntata pilota). Il gioco legato al caso – o “gambling” – ha una storia che corre parallela a quella degli Stati Uniti. Importato dai padri fondatori inglesi, si sviluppò in luoghi nascosti, come i locali ricavati all’interno delle imbarcazioni sulle rive del fiume Mississippi, e poi nelle città che divennero sinonimo dello stile di vita legato al gioco, come New Orleans e Chicago.

La legalizzazione del gioco d’azzardo a stelle e strisce cominciò, guarda caso, proprio durante un periodo di crisi, dopo il 1929. Il Nevada, ora famoso per i pacchiani hotel di Las Vegas, iniziò a normare i casinò già nel 1931. Le leggi nacquero non tanto per un cambiamento di costumi morali, ma per esigenze economiche: servivano soldi e non si potevano alzare le tasse, così si imposero dei prelievi al gioco d’azzardo. I tentativi iniziali furono timidi. Si consentiva, ad esempio, il gioco del bingo negli scantinati delle chiese, ma non molto più. Nel 1963, poi, il New Hampshire creò una lotteria, gestita direttamente dallo stato. Era la prima volta. I dubbi e i moralismi, naturalmente, non mancarono.

Particolarmente interessanti sono le riserve indiane, enclave a statuto speciale dove si possono aprire centri per il gioco d’azzardo in presenza di un accordo tra lo stato e i pellerossa. Per le tribù, che hanno un regime di tasse più leggero del normale, è un affare. Degli oltre cinquecento gruppi riconosciuti a livello federale, circa trecento ospitano giochi. Il guadagno dei quattrocento casinò indiani (diversi da quelli “commerciali”) è di circa 15 miliardi di dollari all’anno. L’Indian Regulatory Act, la norma regina in materia, impone che i ricavi vadano a finanziare lo sviluppo economico delle tribù, il loro benessere e così via. A parte qualche gangster dalla pelle rossa, solitamente i soldi sono guadagnati davvero a fin di bene, anche perché al di là del turismo le tribù non hanno molti altri mezzi per sostentarsi. Anche in questo caso, comunque, il regolamento è abbastanza rigido. I giochi d’azzardo indiani sono suddivisi in tre classi. La prima, relativa a quelli dove si gioca e si guadagna di meno, è gestita direttamente dalla tribù. La seconda, che comprende il bingo, viene controllata anche dalla commissione nazionale che gli indiani d’America hanno costituito per il gioco d’azzardo. La terza, quella più remunerativa grazie a casinò, roulette e slot machine, deve avere la luce verde del governo statale.

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