Ho visto finalmente “The social network” il film di David Fincher sulla storia di Facebook. Devo dire che mi è piaciuto oltre che per il film in sè, per il senso più profondo del racconto, e per cosa questo rappresenta.

LA NOSTRA VITA
Quando sappiamo della tecnologia che usiamo ogni giorno? Quasi nulla: ignoriamo come funziona la lavatrice, perché suona la radio a pile, come una fitta rete di impianti ci fa arrivare a casa luce, acqua, gas. Eppure dietro ad ogni tecnologia si nasconde sempre una storia affascinante: le innovazioni tecnologiche non si verificano per caso, spontaneamente; sono partorite invece da una – o più – persone che riescono a fare propria una sensibilità, una cultura diffusa del tempo e del luogo in cui vivono; uomini e donne che riescono a tradurre in oggetti – o processi – bisogni delle persone (bisogni che, oggi sempre di più non sapevano neanche di avere).

Ciò vale anche per la rete Internet. Secondo il sociologo Manuel Castells la cultura della rete che mescola “meritocrazia e condivisione” nasce dalla “sensibilità libertaria che caratterizzava i campus americani alla fine degli anni sessanta”. Chi crea una tecnologia, la rende anche strumento per veicolare valori che gli appartengono: i primi hacker che hanno progettato l’infrastruttura di rete, hanno fatto in modo che questa introiettasse i valori di democrazia, meritocrazia e condivisione che sono fondanti nei sistemi accademici di eccellenza.

Come racconta “The social network” Mark Zuckerberg, pensando alla sua creatura Facebook, fa compiere a questo processo un passo ulteriore: aggiunge all’infrastruttura tecnologica di rete (ovvero a Internet) e alla “cultura diffusa” di Harvard, il “social”. Sono sentimenti e desideri di geni nella loro adolescenza da arrapati e sfigati (conoscete qualche adolescente che non lo sia?), ma che si basano su meccanismi sociali (il riconoscersi in gruppi, l’essere esclusi da altri) e sessuali (la popolarità, l’accesso a potenziali patner) che muovono ciascuno di noi, ad ogni età – per metterci in contatto, va specificato, non con gli sconosciuti, ma con chi conosciamo poco. Tanto ci “muovono” questi meccanismi e tanto “ne avevamo bisogno” che mezzo miliardo di persone in tutto il mondo (e tredici milioni di italiani) hanno deciso di rinunciare a pezzi importanti della propria privacy per condividere informazioni personali, frammenti della loro quotidianità. Facebook, ci piaccia o meno, è un’enorme architettura sociale che parla di noi e della nostra vita.

LA RIVINCITA DEI GEEK
Il concetto di “geek” in Italia non esiste. Basti pensare che la trasmissione tv “Beauty and the Geek” – dove il geek è il nerd informatico di successo – è stata tradotta in Italia come “La pupa e il secchione”. Eppure negli Stati Uniti l’epopea dei nerd continua. Dopo la generazione dei Steve Jobs e dei Bill Gates, Mark Zuckemberg – come Naveen Selvadurai che ha lanciato Foursquare, o di Larry Page e Sergey Brin che hanno fondato Google – sono quelli che oggi partendo da una buona idea e da una perfetta comprensione dei meccanismi e dei bisogni sociali – quindi anche dei sentimenti delle persone – hanno davvero “cambiato il mondo” e accumulato tanto denaro e potere da risultare a tratti minacciosi anche per le nostre libertà individuali.

Sono anche persone che hanno avuto la possibilità di trovarsi in un contesto nel quale la loro idea venisse valorizzata. Lo spiega perfettamente lo Zuckerberg cinematografico ad un certo punto del film: “Loro – dice rivolto ai fratello Cameron e Tyler Winklevoss – non avrebbero mai avuto le competenze e l’intelligenza creativa per fondare Facebook”. Intelligenza creativa, competenze, cura per i dettagli, coinvolgimento dei più bravi, autonomia economica e di progetto: in una parola, innovazione. Questa è ancora la grande lezione americana e questo quanto ci sia di più sconosciuto nel nostro paese (come sarebbe finita in un’università italiana la scena i cui i due super rampolli si rivolgono al rettore per far pesare il loro potere?).

UNA PRIMA VOLTA
I social network, e Facebook in particolare, non sono tutte rose e fiori. Come molti servizi online, estremizzano alcuni tratti dei meccanismi di rete che spesso ci sfuggono di mano, fino a sovrastarci. E’ ormai dimostrato il legame tra un alto grado di narcisismo e la frequenza con la quale si parla di sé su Internet. Studi recenti dimostrano come, in alcuni casi, i figli piccoli arrivino a nascondere i laptop dei propri genitori: è una forma di reazione perché sentono quegli schermi come dei competitor di attenzione. Non solo: chi non si è mai imbattuto nei facili fraintendimenti che nascono sulle chat dove non c’è spazio per la comunicazione non verbale (a cosa servirebbero le emoticon d’altronde?). Ancora: a chi non è capitato di controllare in maniera compulsiva la posta elettronica, o la bacheca Facebook, e poi di avvertire un vago senso di frustrazione quando non c’è “nessun messaggio da leggere”? Tutti questi “problemi” non possono certo portarci a demonizzare Internet come fanno in tanti (in stragrande maggioranza, ignoranti in materia). Ma è incontestabile che il problema della nostra identità ai tempi del digitale – con relative soluzioni, patologie, innovazioni, soluzioni, fobie – è il tema di questo secolo: bisogna analizzare, studiare, approfondire, confrontarsi su questo terreno. Con il film di Fincher ora una strada è aperta.

Parla di noi, racconta l’ennesima epopea dei geek e apre la strada a sentieri inesplorati sui quali abbiamo disperato bisogna di incamminarci. Per questo mi è piaciuto “The social network”.
E voi, che dite?

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