L’ultimo capitolo Unicredit, dopo il gentile defenestramento di Alessandro Profumo, è il taglio concordato di 4.700 dipendenti. Ma con una postilla sensazionale. A fronte di prepensionamenti e buone uscite di massa, si avrà un occhio di riguardo per i figli dei dipendenti: potranno sostituire i genitori tra le nuove leve.

Un gesto medievale, un segno inesorabile di questi tristi tempi. La maratona sindacale che ha permesso di chiudere le trattative solo al sorgere di una grigia alba milanese, s’è aggrappata anche a un diritto ereditario così sterile, decidendo che bancari conviene essere di padre in figlio, preservando quel poco di privilegio che il dissanguato ceto medio ancora può giocarsi.

Perché i pargoli in questione debbono avere laurea e fluent English a disposizione. E allora – dirà felice l’impiegato rientrando in casa stasera – vedi se non aveva ragione papà che i sacrifici per il pezzo di carta e la mesata a Londra d’estate sono stati ripagati. Sei contento che ti lascio la scrivania e hai anche tu il tuo bel posto fisso?

L’episodio, peraltro, non è tale. Anche Intesa San Paolo solo qualche mese fa ha scelto di inserire nel bacino dei precari da stabilizzare i ‘figli di’, giovani senza alcuna esperienza specifica – se non per osmosi domestica – ma comunque autorizzati a competere con chi magari aveva lavorato e studiato di notte pur di avere una chance. Tempo sprecato, iniziative simili si sono registrate negli ultimi tempi in tanti altri istituti come Monte Paschi, Ubi Banca e Banco Popolare.

Quindi, sia chiaro. L’Italia non è divisa solo tra nord e sud, berlusconiani e antiberlusconiani, romanisti e laziali. Quando nascete, la prossima volta, sceglietevi i genitori giusti chiedendo prima che lavoro fanno, e se possono garantirvi un adeguato dna professionale. Oppure, fatevi concepire direttamente in un altro Paese, un posto magico dove un ragazzo non ha l’obbligo di sentirsi felice perché mamma e papà gli procurano uno stipendio ma può guadagnarsi da vivere facendo quello per cui è nato, ha studiato, e un po’ sognato.

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