Le percentuali dei partecipanti al voto sono altissime (52 per cento al primo turno delle 14, 66 due ore dopo), l’umore degli operai è nerissimo. Anche tra quelli che fuori dai cancelli del Giovan Battista Vico, la Fiat di Pomigliano d’Arco, ti dicono che hanno messo la croce sul sì. “E cosa dovevamo fare? Abbiamo alternative? O si firma o la Fiat ci saluta e torna in Polonia”, dice Giuseppe, niente cognomi che il clima è brutto. Prima del referendum che farà vincere i sì all’accordo con il 62% dei consensi, gli operai ti raccontano di come si è svolto il voto. Con i capi davanti ai cancelli, i grossi dirigenti venuti anche da Torino a farsi vedere e soprattutto a controllare. Sono il volto della casa madre che questa battaglia proprio non vuole perderla. Si vota nella sala paghe, ci sono sei cabine dove operai e impiegati possono segnare un sì (all’accordo) oppure un no da depositare in una delle dieci urne.
Tutto regolare, tutto trasparente e democratico? Sembrerebbe di no. C’è chi ti racconta che qualche capo eccessivamente zelante ha preteso dagli operai la foto della scheda scattata col cellulare, altri di sms di invito alla partecipazione e ai sì ricevuti la mattina all’alba, le storie di visite casa per casa fatte da capi e capettti si sprecano.  È un voto “con la pistola puntata alla tempia” in un clima dentro la fabbrica “pieno, zeppo di intimidazioni con qualche capo che ha chiesto perfino di fotografare il voto”. Mario Di Costanzo, Rsu Fiom, da 11 anni in Fiat “un’azienda della quale prima andavo fiero, ora non più”. Mario ha messo la croce sul no. “Marchionne con i 700 milioni di euro può comprare i macchinari, le automobili, se ne può andare in Polonia ma non può certo comprare la vita dei lavoratori. Ci vada lui a lavorare sulla catena. Non vogliamo buttare a mare i nostri diritti, quei pochi che ancora siamo riusciti a difendere”. Primo turno, ressa ai cancelli. Ci sono gli striscioni di solidarietà con gli operai del “Popolo viola” e quelli dei Cub di Cassino, quelli dei Cobas e qualche vivace scambio di battute. “Venduti, venduti, siete dei traditori della classe operaia”. Mario Mignano, pittoresco esponente dei Cobas urla col megafono nelle orecchie di Michele Liberti, della Fim-Cisl, una delle organizzazioni che hanno detto sì all’accordo. “Non ti consento, non ti permettere, siete la rovina di Pomigliano e dei lavoratori”. Scene d’altri tempi.
 La modernità oggi è made in Fiat ed è un video girato dagli uffici pubbliche relazioni dell’azienda torinese. Verrà proiettato per tutto il giorno sui maxischermo in tutti gli ambienti di lavoro della fabbrica per convincere i lavoratori sulle buone ragioni del sì. Il dottor Sebastiano Garofalo, direttore dello stabilimento, illustra i miracoli del piano. “La nostra  azienda vuole investire 700 milioni, ma occorre la condivisione di tutti su un sistema di regole che ci renda competitivi. Il 22 decidete il vostro futuro, ora a voi la parola”. Nel filmato intervengono anche i lavoratori, ma solo per porre domande di chiarimento: “È vero che verrà intaccato il diritto di sciopero? E che non pagherete i primi tre giorni di malattia?”. Il dottore dispensa sorrisi e parole rassicuranti. “Queste sono sciocchezze”, la realtà è rosea. Perché il nuovo sistema e i diciotto turni consentiranno agli operai di guadagnare almeno 3 mila euro l’anno. “L’equivalente di due stipendi”, sottolinea complice e sorridente il direttore Garofalo. Che alla fine del video ringrazia gli operai. “Grazie, vi prego, discutetene in famiglia”. Il film finisce, restano i dubbi degli operai. Comunque andrà la Fiat vuole il plebiscito. “Dopo il voto – dice in una intervista Ernesto Auci, responsabile delle relazioni esterne di Fiat – l’azienda rifletterà, ci vorranno almeno sette giorni per valutare”. Un tempo infinito per le 15 mila famiglie che vivono del pane della vecchia “Alfa Sud”, una delle ultime presenze industriali in una regione diventata ormai un deserto di aziende.
Le notti dei lavoratori di Pomigliano sono agitate dai fantasmi del dopo. Ai vertici Fiat basterà il sì? Sembra di no. Marchionne lo ha sempre detto, sull’accordo vuole anche la firma della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Maurizio Landini, il segretario generale dell’organizzazione, anche ieri lo ha ripetuto: il referendum è illegittimo, la Fiom prepara azioni legali in difesa dei diritti dei lavoratori messi in discussione dal piano. E allora i fantasmi prendono corpo, il più pauroso è quello che chiamano piano b: la Fiat molla tutto e trasferisce la produzione della nuova Panda a Tychy, Polonia. Un’opzione difficile per i vertici di Corso Marconi, dalle conseguenze politiche e sociali devastanti. Meno doloroso per la casa torinese il piano C che le agenzie rilanciano a poche ore dalla chiusura dei seggi per il referendum. La società proprietaria dello stabilimento di Pomigliano chiude e si forma una newco, i lavoratori vengono tutti riassunti, ma non dalla Fiat e con nuovi contratti. Insomma, chiuse le urne, archiviate almeno per una notte le polemiche di questi giorni, la partita non è finita. Il destino di Pomigliano è ancora incerto.

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