Il personale autunno caldo di Giulio Tremonti è iniziato al meeting di Comunione e Liberazione e va avanti senza freni. Nelle ultime tre settimane, il ministro dell’Economia ha attaccato a più riprese gli economisti tutti, accusandoli di non aver saputo prevedere la crisi (Lui invece sì). Poi ha tacciato a giorni alterni le banche di egoismo nei confronti della patria (Lui invece no: ogni volta che torna ministro gira le quote del suo studio ai soliti amici), perché non presterebbero denari a sufficienza alle nostre valorose imprese. Infine, ha lamentato che i maggiori istituti di credito italiani non facciano a botte per accaparrarsi i meravigliosi “bond” che portano il suo nome. Eppure per placare la sindrome dell’Incompreso di Via XX Settembre, forse non a caso colpito da acne giovanile, basterebbe che i giornali dessero il giusto risalto a questa meravigliosa storia del Banco Popolare. La banca nata dalla fusione della Verona con la Novara, alla quale è stato poi accollato perfino il salvataggio della Lodi post-Fiorani, è stata la prima a prenotare i Tremonti-bond. Questi nuovi marchingegni scaturiti dalla creatività del tributarista di Sondrio sono obbligazioni emesse dalle banche e sottoscritte dallo Stato: pagano un interesse annuo, ma non hanno scadenza e per questo aumentano il patrimonio – e non il debito – di chi le emette.

Proprio in questi giorni di lamentazioni sui Tre-Bond che “non se li piglia nessuno”, il Banco guidato da Pierfrancesco Saviotti sta passando zitto zitto alla cassa di Via XX Settembre per ritirarne la bellezza di 1,45 miliardi. Una buona notizia, si dirà, visto che questa montagna di soldi saranno magari girati alle pmi bisognose di credito. In fondo, secondo le dichiarazioni del governo, è questo lo scopo di tutta la pensata.

Coincidenza vuole, però, che al Banco abbiamo un problema di nome Italease, la banca che Massimo Faenza portò a crescere in modo vertiginoso e che ora è diventata materia di inchieste penali (tutta la vicenda l’ho raccontata per esteso in un capitolo di “Prendo i soldi e scappo”, scritto con una gola profonda di nome Bankomat). Saviotti, proprio in questi giorni, sta cercando di toglierla dalla Borsa e per chiudere questo inglorioso capitolo servono 1,2 miliardi. In un paese occidentale, Italease verrebbe lasciata fallire, anche perché non presenta alcun rischio “di sistema”: è solo una magagna dei suoi azionisti, che sono le principali banche popolari (quelle che “noi non siamo come le grandi banche internazionali, noi siamo vicine alla gente…”).

Che legame c’è tra queste due storie? I tempi e gli importi. Con una mano, il Banco Popolare passa al bancomat pubblico e ritira 1,45 miliardi. Con l’altra, apre l’armadio degli scheletri e ci butta dentro 1,2 miliardi. Sarà per questo che qui nessuno si vanta di nulla, neppure con una pagina di pubblicità del tipo “Siamo vicini alle imprese”? E sarà per questo che neppure Tremonti va fiero di aver aiutato il Banco Popolare con i suoi bond? Sono domande semplici, che noi del Fatto Quotidiano andremo in giro a fare dal 23 settembre. Ci divertiremo.

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