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Debito di Roma, ecco il gioco di prestigio degli interessi per aiutare la Capitale

Decreto Crescita - Il Tesoro pagherà direttamente le banche, invece di farlo tramite il commissario. E così il Comune potrà tagliare l’Irpef

16 Aprile 2019

Se andrà tutto bene, ci guadagneranno tutti: lo Stato dovrà pagare una quota più bassa rispetto a oggi del debito della Capitale; il Comune di Roma gestirà soltanto i debiti verso i fornitori e non più quelli verso le banche e avrà più soldi da spendere; il sindaco Virginia Raggi potrà ridurre l’addizionale Irpef più alta d’italia che grava sui romani giusto nell’anno delle elezioni, il 2021.

La norma seguita dal viceministro dell’Economia M5S, Laura Castelli, si chiama “Boc Salva Roma” (Boc è un prestito obbligazionario) ed è all’articolo 49 di quel decreto Crescita che il governo continua a riscrivere, senza mai pubblicare. Per capire i suoi effetti bisogna studiare un kamasutra finanziario tra ministero del Tesoro, Comune e banche creditrici. Con molta pazienza si arriva a scoprire perché è così importante, soprattutto per Roma e la Raggi, che 78,8 milioni di interessi vengano pagati direttamente dal Tesoro invece che dalla gestione commissariale del debito (che è una specie di istituzione governativa, non comunale) con fondi ricevuti dal Tesoro.

La sintesi estrema è questa: tra il 2003 e il 2004 il Comune di Roma emette un prestito obbligazionario da 1,4 miliardi di euro con scadenza 2048 su cui paga il 5,34 per cento di interesse (uno sproposito) pari a 74,8 milioni all’anno. Nel 2010 il governo Berlusconi decide di salvare il Comune di Roma guidato da Gianni Alemanno, esponente di An all’epoca in maggioranza, e trasferisce quelli che oggi sono 12 miliardi di euro di debito della Capitale in una “gestione commissariale”, un ente parallelo al bilancio del Comune. Ogni anno, il commissario nominato dal governo, oggi Alessandro Beltrami, riceve 500 milioni di euro, 300 dal ministero del Tesoro, 200 dal Comune di Roma che li raccoglie applicando un’addizionale comunale sull’Irpef dei residenti pari al 9 per mille e con una tassa sui biglietti di chi parte dagli aeroporti della Capitale. Questo schema è stato pensato, nel 2010, senza scadenza: ogni anno il governo e i romani pagano, qualche creditore ottiene il dovuto, le banche incassano interessi milionari.

La Castelli, il Tesoro e il Campidoglio hanno escogitato il seguente sistema: le obbligazioni da 3,6 miliardi (1,4 di capitale e 2,2 di interessi) di cui oggi è titolare Roma, diventano del Tesoro che continua a pagare gli interessi e alla scadenza rimborsa il capitale. Così sarà il Tesoro a trattare con le banche, ben contente di avere a che fare con un debitore più solido della dissestata Capitale e quindi disponibili a rinegoziare un po’ al ribasso gli interessi. Per le casse dello Stato non sarà un aggravio, visto che i trasferimenti alla gestione commissariale si ridurranno di pari importo. Forse ci sarà addirittura un risparmio, se il Tesoro ottiene uno sconto dalle banche.

Il secondo beneficio è per il commissario del debito romano: visto che i suoi predecessori si erano fatti anticipare trasferimenti futuri, nel 2022 Beltrami avrebbe dovuto dichiarare una surreale bancarotta sulla gestione commissariale di un debito insostenibile. Sembra astruso, ma in pratica avrebbe dovuto pagare ai creditori 12 milioni in più di quelli che incassava da Comune e Tesoro, e via con saldi negativi anche di oltre 200 milioni fino al 2034. Con il decreto il problema di liquidità è scongiurato, perché gli interessi vengono pagati direttamente dal Tesoro.

Poi c’è il Comune guidato dalla Raggi: una volta trasferiti al Tesoro gli unici debiti certi, quelli finanziari, al Campidoglio restano quelli commerciali che al 30 novembre 2018 ammontavano a 3 miliardi. Entro il 2021 finalmente il Comune conoscerà la “massa passiva” finale, cioè la somma che deve davvero rimborsare a imprese, cittadini con beni espropriati e così via. Se questa risulterà più bassa dei contributi già deliberati per rimborsarli (i famosi 200 milioni all’anno del Comune più i 300 del Tesoro meno i soldi che il Tesoro sottrae per gli interessi che si accolla), il Campidoglio si ritroverà con una specie di tesoretto giusto nell’anno delle elezioni che farà comodo per ridurre l’Irpef dei romani.

Vincono tutti. Tranne i contribuenti del resto d’Italia che dall’inizio della gestione commissariale nel 2010 a oggi hanno pagato 300 milioni all’anno del debito di Roma. Magari risparmieranno qualcosa sul futuro, ma per il passato si devono mettere l’animo in pace: il tesoretto non andrà a loro.

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