Com’è umano lei“. Paolo Villaggio, morto la scorsa notte ad 84 anni, era, è, e rimarrà per sempre la maschera immortale del suo Fantozzi, la poltrona molle su cui non riesce ad adagiarsi il suo Fracchia, il guitto “pupazzato” piegato sadicamente al volere di qualche entità aziendale/istituzionale superiore. Un’invenzione ed intuizione comica unica, quella del ragazzotto nato a Genova sul finire del 1932 che, rispetto ai tempi rapidissimi di oggi, arriva comunque abbastanza tardi – sui 40 anni – al successo cinematografico nazionale, di cui tutti ricordiamo battute e sequenze come mantra identitari della sfiga e della sottomissione. Là all’inizio di tutto, sul finire degli anni quaranta, c’è l’amicizia fortissima da ragazzini con Fabrizio De André. Quando ancora l’adolescenza di scampati alla guerra è un ricordo pulsante, i due cominciano già a pensarsi artisti, a deridere potere e a giocare con parole e note, a viaggiare su navi crociere ad intrattenere ricchi signori in vacanza assieme a quel Silvio Berlusconi al piano che cantava Come prima, più di prima.

Tutti ricordano la composizione nel 1963 del 45 giri che contiene Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e Il fannullone, entrambi i brani con i testi di Paolo Villaggio. Solo che il futuro “ragioniere” invece di prendere di petto soprusi, storture e ingiustizie del mondo, inventa il carattere, il personaggio, la maschera di chi tutto questo subisce. Già da quando faceva parte della compagnia Baistrocchi di Genova, e quando lo scopre Maurizio Costanzo nel ’67, Villaggio mostra già i tratti, l’agonia, quel “ooohh” gutturale, che diventeranno celeberrimi tracce della sintesi fantozziana.

Due comunque i filoni comici su cui lavora Villaggio nel suo cabaret degli esordi, soprattutto con l’avvio di Quelli della domenica (1968), programma della domenica pomeriggio dove esordiscono anche Cochi e Renato, e poi nelle notti milanesi del Derby. Da un lato c’è il prestigiatore Kranz, cilindro e guanti eleganti, accento tedesco e una naturalissima ma inconcludente cattiveria, pupazzi in mano a mostrare il gioco del comico; dall’altro l’umile travet del boom anni sessanta, l’impiegato d’ufficio vessato dai superiori che all’inizio Villaggio trasfigura in Giandomenico Fracchia, e al momento solo in terza persona fa diventare Ugo Fantozzi. Solo nel 1971 Fantozzi diventerà un libro (un milione di copie, traduzioni in tedesco e russo) e nel 1975 un film. L’importanza del passaggio dalla già popolare tv al cinema è il salto di “qualità” che permette l’affermazione definitiva di Villaggio. E leggenda vuole che sia Luciano Salce a suggerire a Villaggio di fondere Fracchia con Fantozzi, figura comunque nata dall’esperienza di lavoro del comico genovese all’Italsider negli anni sessanta. Contrariamente alle figure dei grandi comici del centro-sud Italia sorti fino a quell’epoca (Sordi, Manfredi, ma anche lo stesso Totò), Villaggio compatta nel suo Fantozzi tutta la spinta di rivalsa sociale inespressa, la sudditanza psicologica verso il potere, di una categoria socio-antropologica nata nella crescita economica del dopoguerra in cui si possono identificare migliaia di persone da Nord a Sud del paese.

Impossibile dimenticare l’uso strampalato dei congiuntivi (“vada”, “venghi”, “dichi”), l’ideazione suprema della Megaditta, i superiori al lavoro che sono lunghi sbrodoli di altisonanti appellativi nobili e professionali (“gran duc figl di putt”), ma soprattutto quella naturale predisposizione al subire da chiunque qualsiasi cosa: dalla martellata sul dito in campeggio da parte di Filini (e qui c’è la perla dell’urlo sfogato lontanissimo dal camping per non disturbare i campeggiatori teutonici e incazzatissimi), fino all’essere obbligati a stare in ginocchio sui ceci per punizione aziendale. Fantozzi è comunque figura totalmente sottomessa: ai familiari, ai colleghi pari grado, al cameriere del Capodanno che gli versa i tortellini sui pantaloni. Villaggio trova in questa stortura grottesca il cuore di una maschera che da lì in avanti non ha mai abbandonato almeno quattro generazioni di possibili vessati lavorativi. Nel primo Fantozzi e nel Secondo tragico Fantozzi (1976) allestisce una compagnia di giro, freaks devastanti che lo accompagneranno in tutte le sue avventure comiche: dalla moglie Pina, alla figlia Uga, al ragionier Filini, allo straordinario geometra Calboni, fino alla signorina Silvani. Chi non ritrova i “tipi” fantozziani nel suo ufficio? Chi non li ha trovati almeno una volta nella vita in un luogo di lavoro?

I Fantozzi si riprodurranno poi in decine di titoli (il decimo e ultimo è Fantozzi  la clonazione, nel 1999), perdendo mordente film dopo film, reggendo l’impatto del cambio alla regia – Neri Parenti al posto di quel genio di Salce – con Fantozzi contro tutti (1980) e Fantozzi subisce ancora (1983), ma deragliando subito nel terreno della ripetizione e della “stressatura” di un carattere oramai sviscerato in ogni angolo della personalità a perdere. Per questo sono molto più interessanti le prove di Villaggio come attore in altri contesti simili al filone fantozziano/fracchiano, tentativi di rimodulare il registro comico in auge con alcuni ritocchi di scrittura talvolta geniali: Il Belpaese (1977), Fracchia la belva umana (1981), Sogni mostruosamente proibiti (1982), Pappa e Ciccia (1983).

È l’epoca in cui Villaggio appare in tv sempre più di frequente per parlare del figlio Piero, finito a San Patrignano, e difendere Vincenzo Muccioli, che lo ha salvato dall’abisso della droga. Complicatissimo per l’attore genovese uscire in qualche modo da quel personaggio che lo ha reso celebre e ne ha conficcato i tratti sul suo viso pacioso. Intanto lo fa nella sua versione pubblica, candidandosi dopo anni di vicinanza con il PCI perfino per Democrazia Proletaria nel 1987, o ancora per i Radicali di Pannella nel 1994. Invece nel cinema i tentativi di Villaggio sono quelli classici del comico che cerca la resa drammatica invocando i numi del grande cinema italiano per rifarsi un’immagine. Rispondono presente prima il grande Fellini che lo accoppia con Benigni ne La voce della luna (1989); poi Lina Wertmuller che gli dà la possibilità di diventare il maestro D’Orta di Io speriamo che me la cavo (1992); Ermanno Olmi a mettergli in  mano il colonnello Procolo di Buzzati ne Il segreto del boschi vecchio (1993); infine è Monicelli a volerlo in Cari fottutissimi amici (1994).

Però Villaggio non ce la fa. Lui è Fantozzi. Impossibile andare oltre quella sintesi suprema e sublime del comico. Sarebbe come chiedere a Zalone di fare “il serio” in un film di Amelio. Chiunque riderebbe pensando al Cheeecco di prima. E per Villaggio è uguale, ben prima del comico pugliese. Non bastano le apparizioni nei film di Nichetti e Salvatores, il cameo in Generazione 1000 euro. Villaggio appare sempre più in tv, nei teatri, o in qualche festival con un lungo caffettano indosso a dispensare pillole di cinica saggezza da anziano signore dello spettacolo. Ma invece di risultare amabile e simpatico canuto pensionato non è altro che l’urlo della disperazione di un uomo schiacciato dall’icona ingombrante creata da lui stesso che l’ha cancellato gradualmente ed inesorabilmente nel tempo come uomo e artista. Come in quei film in cui si chiede al comico “facce ride”, in quel gorgo infinito della ripetizione. Eppure, ancora oggi, vederlo lanciarsi dal balcone per prendere il tram affollato di gente alla mattina presto e aggrapparsi all’ultimo in coda sulla porta; accettare a capo chino le bizze del capo al casinò, l’imbarazzo di fronte ad una cena in cui non si possono usare le mani, il birrone ghiacciato e la frittata alla cipolla in attesa del match dell’Italia, Villaggio rimarrà sempre tra la folla “uno di noi”.

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