Doveva essere l’investitore industriale italiano che avrebbe tutelato gli interessi del Paese nella partita Ilva. E invece il gruppo Marcegaglia non fa neanche in tempo a chiudere l’accordo per conquistare le acciaierie di Taranto che già si prepara a sfilarsi. L’azienda che fa capo ad Emma Marcegaglia e a suo fratello Antonio cederà infatti a stretto giro una quota dell’Ilva ad Intesa Sanpaolo, che è creditrice sia del gruppo dell’ex presidente di Confindustria sia delle acciaierie pugliesi. Nel frattempo “quale partner industriale italiano”, Antonio Marcegaglia ha assicurato che si impegnerà “affinché tutte le parti interessate possano trarre il massimo beneficio da questa straordinaria opportunità di rilancio del più grande asset siderurgico europeo che è Ilva”.

Così il suo gruppo potrà rafforzarsi e Intesa sperare di recuperare i suoi crediti. “Sono solo interessi. Sono solo soldi da restituire alle banche, sono solo favori che si devono scambiare”, ha sintetizzato il governatore della Puglia, Michele Emiliano, bocciando seccamente la decisione del ministero dello Sviluppo di assegnare le acciaierie alla cordata Am Investco, formata dal duo Arcelor-Marcegaglia. “Addirittura, Marcegaglia ha dei debiti nei confronti dell’Ilva e quindi in questo modo, acquistando l’Ilva, probabilmente migliora la sua posizione finanziaria. Cose inenarrabili”, ha concluso il governatore.

Non è un mistero infatti che negli ultimi tempi gli affari nell’acciaio non vadano a gonfie vele: a livello globale la domanda è al palo (-0,8%), complice anche il rallentamento dell’economia mondiale. Così nel 2015 la Finmar srl, cassaforte di Emma e Antonio Marcegaglia che controlla il 13% del capitale (con il 51% dei diritti di voto) della Marcegaglia holding, ha chiuso il bilancio consolidato con una perdita vicina ai 55 milioni. Ma soprattutto i conti sono stati appesantiti da 3,3 miliardi di debiti di cui più di un miliardo verso i fornitori, 588 milioni di “altri debiti” e 1,3 miliardi verso le banche con 1,1 miliardi in scadenza nell’arco dei prossimi dodici mesi. Certo, guardando i ricavi industriali, la Marcegaglia holding fattura 3,8 miliardi dando lavoro a 6.393 persone e e ha una buona redditività industriale (5,7%) in un settore a forte impiego di capitale. Ma i debiti restano comunque un pesante fardello soprattutto quando le banche stringono i cordoni della borsa e i clienti rallentano nei pagamenti. Non a caso, come si legge nel bilancio 2015, il gruppo ha negoziato una linea di credito a medio termine “con l’obiettivo di rifinanziare le linee a breve in un’ottica di allungamento dell’orizzonte temporale medio del proprio debito”. Detta in altri termini, la società ha deciso di spostare in avanti le scadenze di parte dei suoi debiti sperando in tempi migliori.

Stando così le cose, si capisce perché l’impegno di Marcegaglia nella partita Ilva sia massimo. E, in un certo senso, sia anche dovuto per “ricompensare” un governo che ha deciso di assegnare le acciaierie di Taranto al tandem Arcelor-Marcegaglia, nonostante le perplessità dell’Antitrust europeo e il parere negativo dei tecnici incaricati dai commissari straordinari di valutare le offerte. E persino a dispetto del fatto che la cordata concorrente, Acciaitalia, formata dal gigante Jsw Steel e dalla Delfin di Leonardo Del Vecchio, avesse deciso di alzare la posta in gioco rilanciando di 650 milioni (a 1,85 miliardi) e promettendo subito la riassunzione di 9800 persone su 14mila dipendenti. Quest’ultimo argomento era piaciuto molto al sindacato che teme i 5-6.000 mila esuberi nel piano della cordata vincitrice. Ma il governo non ha voluto sentire ragioni chiudendo la partita a favore di Am Investco perché, come ha spiegato il ministro Carlo Calenda, il rilancio non si poteva proprio accettare in quanto “contrario alle procedure di gara” e poi perché i “Paesi seri non cambiano le regole in corsa o ex post”. Soprattutto quando il ballo non c’è solo il futuro dell’Ilva, ma anche quello del gruppo Marcegaglia e le prospettive di rientro dei crediti di una maggiori banche del Paese.

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