Toglieteci tutto, ma non il nostro Aki Kaurismaki. Il regista finlandese giunto al suo 17esimo film lascia ancora a bocca aperta per quel suo ironico e peculiare mettere in scena gli ultimi, in modo sempre identico, con una lucidità morale e un rigore formale come si diceva anni fa ‘bressoniano’. L’altro volto della speranza è un ulteriore slittamento verso una storia minima, particolare, che sa poeticamente riassumere il valore di un tutto. Khaled (Sherwan Haji) è un ragazzo siriano in fuga da Aleppo, emerso da un carico di carbone di una nave finlandese. Wikström (Sakari Kuosmanen) è un maturo commesso viaggiatore che molla professione, magazzino di camicie, cravatte e moglie, vince al poker, e rileva un ristorantino di ultima categoria. Khaled, vessato da un gruppo di naziskin e in attesa di ritrovare la sorella unica superstite della famiglia massacrata sotto le bombe, incontra casualmente Wikstrom. Un paio di (fasulli) pugni in faccia l’uno all’altro  alla John Wayne vicino a un bidone del pattume, e il ragazzo viene subito nascosto, assunto e regolarizzato dal neo ristoratore, quindi aggiunto alla strampalata truppa di dipendenti di lunga data del locale, uno dei quali fumacchia imbalsamato in cucina avvolto nelle ragnatele.

Kaurismaki, produttore e sceneggiature di ogni suo film, gioca felicemente la carta della tragicommedia, esplorando la dolorosa quotidianità del migrante che chiede asilo senza perdere la dignità, come l’elegante e onorevole tentativo dell’uomo quasi da pensione che si reinventa piccolo imprenditore con quell’allure triste da finlandese silente. Entrambi i personaggi sono intrisi di quell’umorismo dissacrante tipico del Kaurismaki touch: stralunati e disincantati verso le storture del mondo, troppo intelligenti per prendersi hollywoodianamente sul serio nel contrastarle da eroi, uniti da un cuore d’oro che porta perfino al salvataggio austero e irreprensibile, oltreché straordinariamente inspiegabile, di un bellissimo cagnetto. Il 59enne autore finlandese lanciato almeno in Italia nel 1990 da Ho affittato un killer, prosegue la sua idea di cinema basata su quell’inquadratura essenziale, macchina da presa sempre fissa che mai si muove, mai carrella o stringe su un dettaglio. Quel che accade rimane sempre dentro ai bordi del quadro, alle cornici dello schermo, quasi come una confessione di realismo estremo nell’atto totale della falsificazione/invenzione del racconto, gioiosamente cucito tra una sequenza e l’altra da alcuni veri e propri performer alla chitarra che irrompo diegeticamente nel set del film.

Con questo film, cerco di fare del mio meglio per mandare in frantumi l’atteggiamento europeo di considerare i profughi o come delle vittime che meritano compassione o come degli arroganti immigrati clandestini a scopo economico che invadono le nostre società con il mero intento di rubarci il lavoro, la moglie, la casa e l’automobile”, ha spiegato Kaurismaki. “Nella storia del continente europeo, la creazione e l’applicazione di pregiudizi stereotipati contiene un eco sinistro. Ammetto serenamente che L’altro volto della speranza è per certi versi un cosiddetto film di tendenza che tenta senza alcuno scrupolo di influenzare le visioni e le opinioni dei suoi spettatori, cercando al tempo stesso di manipolare le loro emozioni al fine di raggiungere questo scopo – conclude ironicamente il regista -, “Dal momento che tali sforzi falliranno immancabilmente, quello che ne resterà è, mi auguro, una storia onesta e venata di malinconia trainata dal senso dell’umorismo, ma per altri aspetti anche un film quasi realistico sui destini di certi esseri umani qui, oggi, in questo nostro mondo”.

Articolo Precedente

‘Il Segreto’, cronache irlandesi di una chiesa colpevole

next
Articolo Successivo

Luca Argentero ospite del Fatto.it. Rivedi la diretta con l’intervista di Peter Gomez

next