Si butta a mare vestita di stracci, fa bracciate possenti, annaspa, sta per svenire, si aggrappa a un palo. Rose è incinta, al nono mese, riesce a infilarsi in un anfratto di roccia scura e lì, tra le tenebre della notte, dà alla luce il suo bambino. Afferra una pietra, a remi arriva il suo soccorritore: è un prete, padre Gaunt, dall’anima  mefistofelica.  Li mette in salvo. La salvezza per Rose vuol dire dire che si riaprono le porte dell’ospedale psichiatrico dal quale era fuggita. Le fanno credere che il suo bambino è morto, che lei lo ha ammazzato a sassate. Invece lo danno in adozione. È vero, Rose ha afferrato una pietra, ma solo per tagliare il cordone ombelicale.

È l’ultimo ricordo lucido prima dell’elettroshock, una tortura fatta di scosse elettriche, praticata a Rose prima che la sua mente entri nel buio. Un buio che durerà 50 anni.

È pazza, così le fanno credere, è una minaccia per la società. Le viene detto con tono perentorio: “Mai guardare un uomo dritto negli occhi”. Il vero pericolo, però, è la sua bellezza, il suo spirito libero: gli uomini si sentono attratti da Rose, compreso padre Gaunt che ne è segretamente innamorato. Erano queste le sue colpe, sufficienti per rinchiuderla in manicomio per tutta la vita.

Sullo sfondo dell’Irlanda degli anni ‘40, cattolica, bigotta e repressa, avviene l’incontro con il suo piccolo principe: Jack che con il suo aereo si schianta davanti agli occhi di Rose. La ragazza lo accudisce, si innamora, vivono giorni di passione bruciante, destinata a finire. Jack si è arruolato nella Royal air force, per gli intransigenti repubblicani irlandesi è un tradimento. Sbattono Rose in manicomio, acciuffano Jack, lo mettono in ginocchio e con un proiettile conficcato in testa fanno la loro “giustizia”. La vita di Rose è spezzata fino all’arrivo di uno stimato psichiatra incaricato di fare una nuova valutazione del suo stato mentale.

È la trama da psyco-thriller de Il Segreto, film di mostruosa bellezza, se così si può dire, che fa inumidire un po’ di fazzoletti, tratto dall’omonimo best seller di Sebastian Barry. A firmare la regia è un altro big, Jim Sheridan, narratore istintivo d’immagini, suoi i capolavori come Il mio piede sinistro e Nel nome del padre.

Superba l’interpretazione  di Vanessa Redgrave, 80 anni, di 50 di battaglie come attivista politica, sempre in prima linea per difendere i diritti umani. Rimasta fortemente turbata  dalla storia di Rose: “La Chiesa e il governo irlandese hanno avuto una grande responsabilità. Mi domando, per esempio, chi si è espresso contro questi crimini, durante gli anni ’30, ’40 e ’50. È una storia tragica, ma purtroppo vera. La verità dev’essere raccontata e questo film contribuisce a farla emergere”. Alla fine, Vanessa lancia una domanda provocatoria: “Chi oggi ritiene di essere sano di mente?”.

Dall’Irlanda proviene anche la macabra scoperta di una fossa comune con i cadaveri di circa 800 tra feti, neonati e bambini che erano stati affidati a una casa per ragazze madri gestita da suore. Il ritrovamento è avvenuto nei pressi dell’istituto delle suore del Bon Secour, attivo dal 1925 al 1961. I test del Dna evidenziano che i corpi avevano un’età compresa tra le 35 settimane e i 3 anni.

“Non esistono in Italia storia simili, oppure non si vuole farle emergere?”, si domanda lo scrittore Francesco Formaggi, autore de Il Cortile di pietra (ed. Neri Pozza) nel quale viene raccontata la storia del piccolo Pietro. Figlio di contadini poveri, il bambino viene affidato a un collegio gestito da suore di fianco al quale si nasconde una fossa comune dove vengono occultate le salme dei bambini morti di stenti o maltrattamenti. Una vicenda che ricorda da vicino la vicenda irlandese.

Torna alla mente anche la storia di Philomena Lee, costretta da adolescente a dare il suo bambino in adozione, diventata simbolo delle ex ragazze madri che vogliono far luce su migliaia di casi analoghi. Alla sua storia è stato dedicato anche un film.

Sono circa 60mila i file di cui Philomena Project e Adoption rights alliance chiedono l’apertura (qui la petizione). In quegli archivi sono conservate a decenni di distanza le vite rubate di donne e dei loro figli. In molti casi sarà troppo tardi, non faranno a tempo a riabbracciarsi. Com’è successo a Philomena a cui resta, dopo 50 anni di ricerche, soltanto un nome inciso su una lapide, quello del figlio. Ma almeno il suo non è più un lost child.

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