L’incredibile è ben visibile agli occhi: c’è la giornalista anti-camorra Rosaria Capacchione, c’è l’ex vicedirettore dell’Espresso e del Corriere della Sera Massimo Mucchetti, ci sono Mario Tronti – professore filosofo, operaista ed ex comunista -, il giuslavorista Pietro Ichino e anche Emma Fattorini, una delle più stimate storiche italiane. Ci sono gli ex Cinquestelle, quelli che gridarono al diritto alla libertà, a dissentire: Orellana, Battista, la Fucksia, chissà se qualcuno si ricorda ancora che esistono, a parte i parenti. Poi ci sono quelli della Lega Nord, i legalitari che, dopo essersi attaccati la stella al petto e aver caricato la colt, si riempiono la bocca con la “certezza della pena“, ma solo quando il colletto non è bianco. Ci sono soprattutto i renziani, molti renziani, la maggioranza di chi nel Pd ha votato a favore dell’ordine del giorno di Forza Italia che ha salvato Augusto Minzolini e la maggioranza di quelli che nemmeno si sono presentati. Per portare il Parlamento al punto più basso della sua storia, umiliante almeno quanto il voto di Montecitorio su Ruby-nipote-di-Mubarak, sono decisivi i collaborazionisti, espressione del triennio renziano, la nuova classe dirigente democratica: la vicepresidente del Senato Rosa Maria Di Giorgi, l’ex ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, gli ex montiani Gianluca Susta e Alessandro Maran, la presidente della commissione Affari Sociali Emilia De Biasi.

Nel migliore dei casi studiosi, giornalisti, vicepresidenti, ministri non sapevano cosa stavano votando. Nel peggiore, lo sapevano e si sono presi il diritto di celebrare in Senato un quarto grado di giudizio per l’ex direttore del Tg1, dopo che la Cassazione ha confermato la pena. Sapevano ma hanno ignorato, cioè, che la Camera e il Senato, nei casi di decadenza, non devono giudicare la fondatezza di una richiesta d’arresto – ossia il fumus persecutionis – e men che meno devono votare – come si è giustificata la Capacchione – a cosa sarebbe potuto succedere se il processo Minzolini si fosse celebrato dopo l’approvazione della riforma penale, avvenuta ieri. Più semplicemente devono applicare la legge Severino, che non fu approvata né da un clan di magistrati né da un consiglio di fabbrica grillo-bolscevico, ma dalla sterminata maggioranza, di cui il Pd era l’anima, che teneva in piedi il governo Monti. La legge, al suo ultimo giro, prese 256 voti al Senato e 480 alla Camera.

QUI LA TABELLA DELLA VOTAZIONE IN SENATO

Grazie ad Augusto il centrodestra torna ad abbracciarsi
Al Senato, dunque, la legge Severino da oggi non è più in vigore e sotto questa luminosa stella si ritrovano abbracciati tutti i berlusconiani in Parlamento, dall’Area Popolare che unisce il morente Nuovo Centrodestra e quel che resta dell’Udc fino alle tre senatrici finto-leghiste (Bisinella, Bellot, Munerato) che rappresentano Fare!, il partito che – a dispetto del fatto che non esiste – è guidato dal sindaco di Verona Flavio Tosi. A qualcuno lì a destra farà venire quasi le lacrime agli occhi: il centrodestra così unito non si vedeva da almeno 10 anni.

A favore dell’ordine del giorno presentato dall’ex sottosegretario Giacomo Caliendo hanno votato i 43 senatori di Forza Italia, tutti presenti per la grande occasione, circostanza che in Parlamento ha la stessa frequenza della cometa di Halley. Insieme agli azzurri hanno votato gli alfaniani. Tra loro c’erano 3 assenti: uno di loro era Ulisse Di Giacomo, proprio il sostituto dell’ex Cavaliere da quando questi è stato espulso dall’assemblea di Palazzo Madama, per ora unico. I verdiniani hanno votato sì in 14, ma tra chi mancava c’era proprio Denis Verdini, i fittiani invece compatti. Tra i leghisti sono presenti tutti coloro che pretendono legalità in tv, come il capogruppo Gianmarco Centinaio o il suo vice Stefano Candiani. Infine 7 voti dal Gal, il “gruppo misto di destra”, compresi il capogruppo ultraberlusconiano Mario Ferrara e i due senatori di Idea, cioè l’ex ministro Gaetano Quagliariello – saggio da numerose generazioni – e il cosiddetto moderato Carlo Giovanardi. Ma questo è il centrodestra: sono vent’anni che si comporta così, con coerenza.

Determinanti i 43 del Pd tra sì e assenti 
Il sostegno determinante per mantenere Minzolini al Senato alla facciaccia della legge è quello dei senatori del Pd, sia presenti che assenti. In tutto 43 (19 più 24), un numero che sarebbe stato sufficiente – qualora avessero preferito rispettare la legge – per ribaltare la decisione del Senato: la differenza tra sì e no all’odg di Caliendo è stata di 23 (137 contro 114 tra no e astensioni). Di questi 43, 32 sosterranno la mozione di Renzi al prossimo congresso: 15 tra i sì e 17 tra coloro che non si sono nemmeno presentati alla seduta di Palazzo Madama.

I 19 che hanno votato sì sono Rosaria Capacchione, Emilia Grazia De Biasi, Rosa Maria Di Giorgi, Laura Fasiolo, Emma Fattorini, Nicoletta Favero, Elena Fiossore, Stefania Giannini, Pietro Ichino, Luigi Manconi, Alessandro Maran, Salvatore Margiotta, Claudio Moscardelli, Massimo Mucchetti, Francesco Scalia, Ugo Sposetti, Gianluca Susta, Giorgio Tonini, Mario Tronti. Tra i 15 renziani ecco Margiotta, diventato a un certo punto il caso simbolo del garantismo à la Renzi. La Camera nel 2008 lo salvò dall’arresto durante un’inchiesta per tangenti in Basilicata con un voto quasi bulgaro. Così il suo caso è finito in molti comizi dell’ex segretario-presidente come esempio della cautela che serve nei confronti di un politico indagato e sotto processo, perché “tutti sono innocenti fino all’ultimo grado di giudizio”. La stessa cautela evidentemente dev’essere applicata anche per un politico condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione, come nel caso di Minzolini.

Il senatore Moscardelli, invece, è una vecchia conoscenza della giunta per le immunità del Senato. Per lui è sempre tutto a posto, prende il nome della giunta (“per le immunità”) alla lettera. Per esempio aveva votato contro il via libera all’utilizzo delle intercettazioni nell’inchiesta sul porto di Molfetta che coinvolgeva Antonio Azzollini (Ncd). Ma non aveva nemmeno rinunciato a difendere Roberto Calderoli dal processo per istigazione al razzismo dopo che aveva paragonato l’ex ministro Cecile Kyenge a un orangotango. Nel frattempo la Procura di Roma ha chiesto per Moscardelli il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio a causa di alcune presunte irregolarità nell’assunzione dei suoi collaboratori quando era consigliere regionale nel Lazio.

Gli assenti nel Pd sono stati invece 24, questo vuol dire che un senatore democratico su 5 non c’era. Solo 7 dei 24 erano assenti “giustificati”, cioè in missione. Tra questi 4 ministri: Valeria Fedeli, Marco Minniti, Roberta Pinotti e Anna Finocchiaro. Anche in questo caso la sorte ha voluto che tre su quattro assenti fossero renziani, nel senso di coloro che vogliono Renzi di nuovo segretario del Pd: da Laura Cantini a Roberto Ciociancich, da Stefano Esposito a Linda Lanzillotta, da Nicola Latorre a Francesca Puglisi, da Stefano Lepri a Giorgio Santini. Non c’è nemmeno Mauro Del Barba – area cattolica del partito – eppure su Twitter difende la scelta della “libertà di coscienza” lasciata dal Pd, come se si trattasse di una legge sulla bioetica, sull’adozione ai gay, la ricerca sulle staminali.

Luis Alberto OrellanaGli ex Cinquestelle si riscoprono ultragarantisti
A riassumere la giornata dai toni farseschi ci pensano gli ex fuoriusciti del Movimento Cinque Stelle che hanno vissuto l’ebbrezza di passare dal ritmo grillino di una mozione di sfiducia al mese alla sagra pseudo-garantista del Senato. Tra chi vota sì al testo di Caliendo, comunque, ci sono Lorenzo Battista e Luis Alberto Orellana, ora nel gruppo delle Autonomie, Serenella Fucksia – iscritta al gruppo misto – e Fabiola Anitori, ora dentro Area Popolare di Alfano. Paola De Pin era presente ma non ha votato niente, mentre Cristina De Pietro (ora nel misto come verde) non si è proprio presentata. Il primato, tuttavia, è di Alessandra Bencini, che una volta uscita dai Cinquestelle ha rifondato l’Italia dei Valori. Per ricordare i valori di Di Pietro ha lasciato che il pregiudicato Minzolini rimanesse in Senato.

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