Il punto del non ritorno, quello che sancisce l’irrevocabilità della rottura, arriva intorno alle 14, con l’aria sorniona di Nico Stumpo e e la camminata dinoccolata di Davide Zoggia. I due fedelissimi bersaniani lasciano lo stanzone al piano interrato del Grand Hotel Parco dei Principi dov’è in corso l’Assemblea nazionale del Pd e salgono in sala stampa. I loro sguardi rivelano una gran voglia di parlare, tanto che più tardi qualche renziano protesterà: “Non fanno interventi ufficiali, ma poi corrono a chiacchierare coi giornalisti. Bella forma di rispetto”. Intorno a Zoggia si forma subito un capannello di cronisti, e le prime domande non possono che riguardare la scissione. Si farà o no? “Per me, è già avvenuta da qualche ora. L’incontro di ieri al teatro Vittoria mi è sembrato risolutivo”. C’è qualcosa, però, che non convince, in questa rottura: nei modi, nei tempi. Tutto così incerto, tutto così poco eclatante. “Ma cosa vi aspettavate? – chiede Zoggia – Non siamo mica a Livorno nel 1921. Qui nessuno se ne andrà in un teatro a fondare un nuovo partito”. Ancora presto per definire i numeri delle truppe scissioniste. “Certo è che se abbiamo deciso di fare un’operazione del genere è perché siamo sicuri che non saremo in 4 gatti”, sorride Zoggia.

Eccolo, dunque, lo spartiacque di una giornata lunga e estenuante, caratterizzata soprattutto dall’ansia di decifrare i sottintesi, di dare un senso a dichiarazioni criptiche, talvolta perfino incomprensibili. “Capisco benissimo il disorientamento di chi ci osserva dal di fuori”, commenta Anna Ascani, renziana di ferro che entra nella sala della buvette con un passo nervoso, insieme ad un paio di amiche, scansando i cronisti. Poi si apparta in un angolo, pare calmarsi, e accetta di rispondere. “Se fate fatica voi giornalisti a comprendere le ragioni di questa frattura, figuriamoci cosa potrà pensare il nostro popolo. Chi glielo spiegherebbe, nel caso le cose andassero male, che si è sfasciato il partito per una questione di date e di modalità di svolgimento del congresso?”.

Nel frattempo, tutto solo con un tramezzino in una mano e un bicchiere di spremuta nell’altro, Franco Marini si aggira tra i tavoli ingombri di piatti sporchi, cercando di trovare un appoggio libero. Quando vede i giornalisti avvicinarglisi, alza le mani: “Prima fatemi finire di mangiare”. Sul retro del suo accredito appeso al collo, scritte a penna con una grafia un po’ tremante, due parole: “congresso” e “Orlando”. Parla di sé in terza persona: “Il fiuto politico di Franco Marini mi porta a dedurre che le elezioni ci saranno non prima nel 2018, a fine legislatura. Nessuno vuole il voto anticipato. Neanche Renzi”. Che però ancora non lo ammette esplicitamente. Come mai? “Non lo so. Ma se lo facesse, tutto tornerebbe: si potrebbe fissare il congresso a maggio e fare prima la conferenza programmatica proposta da Orlando. A quel punto la minoranza come potrebbe dire di no?”. Sta dicendo che la soluzione è a un passo, insomma, ma che nessuno vuole coprire quella distanza? “Eh, già vi ho detto troppo. Ora lasciatemi bere la mia spremuta”.

Arriva anche Gianni Cuperlo, elegantissimo nel suo dolcevita nero. S’intrattiene con i giornalisti, spiega qualche citazione rimasta fino a aquel momento oscura. “Restare nel gorgo? Vuol dire fare come fece Ingrao dopo la svolta della Bolognina, quando criticò Occhetto ma comunque rimase nel Pds”. E dunque resta? Oppure alla fine andrà via anche lui? E quali sono i rapporti con la minoranza? Cuperlo evita risposte precise, torna ogni volta “alla necessità di riscoprire le ragioni dello stare insieme”. Solo quando gli si domanda perché non sia andato all’evento organizzato da Enrico Rossi al teatro Vittoria, replica con una punta di sarcasmo: “Perché non sono stato invitato”. Lo interrompe un delegato sardo, un anziano arzillo, che gli punta contro il suo indice nodoso: “Tu hai chiesto le dimissioni di Renzi e la convocazione del congresso. Ora noi vi abbiamo concesso tutt’e due le cose. Perché voi andate via?”. “Intanto, rifiuto di pensare che ci sia un noi e un voi”, replica Cuperlo, per nulla intimidito. Ma come? La scissione non è già avvenuta? “Io combatterò fino all’ultimo centimetro perché questo non accada”.

Ma ormai la giornata sembra impazzita: cercare una sintesi che riassuma il senso dello scontro è difficile. Se al piano di sotto prosegue il rito degli interventi, tra la sala stampa, il bar e il giardino si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti di questa vicenda. Da Maurizio Martina a Graziano Delrio, da Debora Serracchiani a Ettore Rosato, fino a Pierluigi Bersani, che quando si riferisce ai renziani dice, con sprezzo, “questi qui”. La confusione regna sovrana.

La minoranza, ad esempio, per ore ribadisce che nessuno dei suoi esponenti parlerà. L’unico portavoce dell’area bersaniana pare essere dunque Guglielmo Epifani, tra i primi ad arrivare al Parco dei Principi, camminando assorto lungo i marciapiedi davanti all’entrata del Bioparco, quasi stia ripassando mentalmente il discorso. Poi, nel primo pomeriggio, l’annuncio di Matteo Orfini che gela la sala stampa: “Si è iscritto a parlare anche Michele Emiliano”. Il quale, al mattino, scendendo le scale che lo conducevano nella stanza dell’assemblea, aveva risposto così a chi gli domandava di un suo intervento: “Io non parlo, oggi. A me non spetta fare nulla, a me”. Poi invece sale sul podio, e tiene un discorso che sembra cambiare, una volta di più, le carte in tavola. Un ripensamento? Una marcia indietro? Nei capannelli di renziani che si formano lungo il corridoio, la lettura che se ne dà è un’altra. “Ma quale pentimento? È tutta pretattica. Loro sanno che intestarsi la scissione perché il congresso è stato convocato un mese prima è controproducente. E allora devono provare a dimostrare che non sono stati loro ad andarsene, ma Renzi a cacciarli. Ecco il perché dell’intervento di Emiliano: farsi vedere mansueto e fedele, per poi poter scaricare la responsabilità sulla maggioranza”.

Interpretazione che sembra confermata dagli altri due candidati alla segreteria, anche se con umori diversi. Enrico Rossi scherza con i giornalisti mentre lascia l’hotel e si dirige verso la stazione. Che però è nella direzione opposta rispetto a quella da lui imboccata: “Lo so – sorride – ma voglio farvi stancare”. E Emiliano? “Ho condiviso il suo estremo tentativo di indicare una mediazione come qualcosa di possibile. Ma gli interventi successivi hanno confermato la chiusura della maggioranza. Le nostre richieste non sono state neanche minimamente accolte, pertanto le conseguenze sono inevitabili”. Roberto Speranza, invece, è tra gli ultimi a uscire. Lo si vede scuro in volto, nervosissimo, mentre rifiuta di rilasciare dichiarazioni ufficiali. “Certo, le parole di Emiliano sono le stesse che avrei detto io, certo”, si limita a commentare.

Fuori, intanto, mentre la folla si dirada, resta un gruppetto composto da 5 o 6 attivisti a presidiare uno striscione. Un lenzuolo bianco appeso contro un’inferriata con su scritto, in rosso e verde, “Restiamo uniti”. “Se solo le esigenze della comunità prevalessero sui personalismi, sarebbe così facile aprire un dibattito serio. Ovvio che sì: noi ci crediamo ancora che si possa evitare la scissione”. Forse sono i soli, al termine dell’assemblea, ad esserne così convinti.

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