Incanto Clint. Sully, suo 36esimo film da regista, riporta Eastwood ai livelli eccelsi de Gli Spietati e Million dollar baby. I maligni direbbero che non ci voleva molto, dopo operette minori come Changeling, Invictus, Hereafter o J. Edgar. Eppure compiuti gli 86 anni la star hollywoodiana neocon, che negli anni novanta venne politicamente sdoganata dalla critica progressista di casa nostra come una sorta di illuminato liberal, riesce ancora a stupire selezionando uno spunto incredibile di cronaca, e storia americana, adatto per le sue corde individualiste e antisistema.

Tutto è semplicemente perfetto in Sully, film che apre fuori concorso il 34esimo Torino Film Festival. Un’ora e 36 minuti che planano dolci sul Po, un po’ come accadde per l’aereo Us Airways 1549 pilotato dal comandante Chesley Sullenberger che il 15 gennaio 2009 atterrò con i due motori fuori uso sul fiume Hudson tra due ali di popolati edifici newyorchesi. 155 tra passeggeri ed equipaggio si salvarono grazie all’ammaraggio intenzionale di “Sully”, diminutivo del lungo e periglioso cognome Sullenberger, all’epoca 60enne, baffo e capello grigio, qui interpretato dal maturo e convincente Tom Hanks, autentico eroe nazionale baciato e abbracciato da chiunque dopo essersi assicurato con l’acqua fino al ginocchio che ogni passeggero e hostess fossero scesi dal velivolo che stava affondando.

Agli antipodi di antieroi alla Schettino, Sully è però accusato di non aver effettuato quello che la torre di controllo, e la logica dei rilevamenti simulati al computer post-incidente,  hanno calcolato come scelta migliore: atterrare in pochi secondi in uno dei tre aeroporti disponibili entro pochi chilometri di volo. L’uomo, invece, con sangue freddo, senza perdere il controllo della situazione d’emergenza dopo il “bird strikes” (uccelli nel motore), e con il fido copilota silente pronto ad aiutarlo, si affida alla sua esperienza e volontà atterrando comunque “dolcemente” sul fiume. Racconto che Eastwood scompone in parti autonome e temporalmente compenetranti, con il dettaglio del crash e dei soccorsi che non arriva subito ma riemerge come riavvolgimento del nastro della memoria oltre metà film, e prima del mini processo davanti alla corte nazionale dei trasporti.

Scelta narrativa vagamente alla Kurosawa come se si scomponessero i punti di vista in modo da ricomporre poi uno sguardo collettivo attorno al “miracolo” del salvataggio. Sully attende l’esito della sentenza senza scomporsi, tessendo un filo telefonico sentimentale con la moglie a casa lontana, dribblando e interpretando la parte dell’uomo della provvidenza al Letterman show e ai tv talk, cercando di riappropriarsi di quel quid altrimenti definito “fattore umano” che gli servirà per superare le forche caudine dei freddi pc che avrebbero fatto atterrare il 1549 all’aeroporto La Guardia come nulla fosse.

Niente catastrofismi alla Airport o spettacolarizzazioni del dramma come farebbe un qualsivoglia regista paria piazzato lì da una superproduzione per inquadrare lacrime, ferite e congelamenti, supertecniche digitali a riprodurre realisticamente l’incidente. Perché Clint fa un cinema di testa e di concetto da tempo. E più stringe con la macchina da presa sull’eroe, inconsapevole di esserlo finché si vuole, più sa mostrare la classicità della storia che racconta, l’incanto basico del cinema che non ti lascia divagare un secondo oltre la visione sullo schermo. Poi chiaro che sottotraccia quel “trumpismo” di moda oggi soggiace latente, comunque mai sbandierato, in battute sfuggenti di script che accusano l’invadenza e la mancanza di etica dei giornalisti, gli inutili servizi offerti dal sindacato, e soprattutto l’idea dell’uomo qualunque che deve combattere un “sistema” che invece di ringraziarlo per ciò che ha fatto lo incrimina e accusa di negligenza.

Sully è un collante buono e paziente, lontano dal cecchino infoiato di American Sniper, per una società/gruppo che rischia di frammentarsi di fronte al pericolo. Uomo d’ordine, fisicamente antiatletico, prudentemente rassegnato, infastidito dalla gloria mediatica, che si accolla su di sé l’onestà morale di ciò che è giusto fare sfidando comunque le regole. Il nucleo poetico più vero di Eastwood, il Frankie Dunn che stacca la spina della povera Maggie in Million, il Kowalski che mima il gesto di sparare in Gran Torino, è infine giunto con Sully alla sua ennesima potenza.

Infine, una considerazione sulla performance incredibile di Tom Hanks. Interpretazione delicatissima giocata sulle microespressioni del viso, trattenuta di fronte all’incedere del dramma e della paura, rilassata nel dimostrare la propria “buona volontà” senza sbraitare e gridare all’ingiustizia usando con cautela voce e movimenti del corpo. Dargli un Oscar per la maturità artistica finalmente raggiunta,  cancellando l’immagine del terrificante orascchiottone paffuto di gioventù sarebbe un bel gesto.

Articolo Precedente

When The Towel Drops Vol1. Da Zabriskie Point a La Notte Brava, il collettivo Radha May fa rivivere le scene censurate del cinema

next
Articolo Successivo

“Sarà un Paese” – Matilde e l’inceneritore

next