E Roma Pride è stato. Come sempre, in questa manifestazione la società civile si è incontrata non solo per rivendicare i diritti della minoranza Lgbt, ma anche per poter esprimere, in strada e al cospetto del mondo, il valore della diversità. E ciò vale non solo per quelle centinaia di migliaia di gay, lesbiche, trans, ecc, che hanno sfilato per le strade del centro. Vale anche per tutte quelle persone solidali con il popolo arcobaleno che sono scese in piazza colorandosi il volto con l’arcobaleno, esibendo maschere, ostentando cappellini e tutto quello che può veicolare un “eccesso” e che rappresenta una sorta di metafora visiva (e visibile) del fuori norma che si riappropria del concetto di autodeterminazione.

In altre parole: siamo stati considerati/e a lungo al di fuori dell’accettabilità per ciò che siamo. E per ciò che siamo, ci riprendiamo spazi, luoghi e visibilità. La visibilità, per altro, si riscontra anche nel dato linguistico. La lotta sulla liberazione della gay community si gioca anche sul piano delle definizioni. Per secoli “l’amore che non osa pronunciare il suo nome” non solo evitava di definirsi, ma veniva descritto all’esterno con le categorie del peccato, dell’abominio, dell’insalubrità, della malattia. Le parole usate, invece, erano (e sono) quelle dell’insulto, del dileggio e del disgusto.

Il pride dice no a questa rappresentazione e ribalta – anche attraverso gli “eccessi” – una visione a senso unico della società. In tal senso, aver avuto l’adesione e la solidarietà di istituzioni importanti come le ambasciate di Canada, Francia, Usa e Regno Unito (Tronca e Renzi,  invece, hanno dato forfait) e la presenza massiccia di persone eterosessuali, rappresentano la migliore risposta a chi vede un omosessuale e pensa a un frocio. A chi guarda a una lesbica e pensa che non ha mai conosciuto un uomo vero (poi possiamo dissertare a lungo sul certificato di veridicità dell’essere maschio). A chi pensa a una persona trans e l’associa, in automatico, a un marciapiede.

Detto ciò, è divertente vedere come i (soliti) media trattano l’argomento. Proprio a partire dal linguaggio iconico e verbale. Alcuni grandi quotidiani nazionali, su settecentomila persone abbigliate in stragrande maggioranza in maglietta e pantaloncini, hanno preferito a dare maggior visibilità a quegli “eccessi” di cui sopra. Che vanno benissimo, al pride ci si va anche per le drag queen con le tette finte e per i glutei dei go-go boys sui carri delle discoteche. Ma una rappresentazione concentrata solo su quegli aspetti, a discapito della varietà umana del resto dei/lle partecipanti, non solo non rende un buon servizio all’informazione (ne restituisce, infatti, un aspetto parziale), ma offende con l’invisibilità tutte le altre persone accorse. Menzione d’onore per il Corriere, poi, che non ha ancora capito che si chiama “Roma Pride” e non gay pride e basta (ci sono anche lesbiche, trans, eterosessuali, bisessuali, intersessuali, ecc) e che scrive ancora “un trans” per indicare una MtF, ovvero una persona in transizione e che si riconosce nel genere femminile.. Ce la potete fare, insomma.

Divertenti anche le opinioni di chi commenta, in giro sui social. Sul post di Roma Today, possiamo leggere lo sdegno di alcuni «Una parata nauseante e ridicola che offende l’intelligenza di tutti gay o etero che sia», il dileggio di altri «Che orgoglio!!!! Neanche avessero vinto la 3 ‘ guerra mondiale!!!» (e pazienza per l’uso disinvolto della punteggiatura) e varie perplessità «ma perché sfilare mezzi nudi e ostentano la diversità?».

Parole che si commentano da sole, rispetto a una norma ritenuta come “naturale” e che poi ammette che il corpo della donna venga usato a scopi commerciali – come quelle pubblicità che usano la nudità per vendere colla e mozzarelle – per non parlare di quel sistema culturale che racconta il mondo femminile come proprietà ad uso e consumo del maschio.

Polemiche interne anche dentro la stessa comunità Lgbt. Ad alcuni non è piaciuto il trattamento che dal palco è arrivato in direzione del governo e della legge sulle unioni civili. “Chi non si accontenta lotta”, è stato lo slogan di ieri. E il messaggio veicolato è molto semplice e anche largamente condivisibile: non siamo disposti a dire grazie per una legge che arriva tardi e arriva male. Commovente e pregnante, in tal senso, il discorso di Alessia Crocini, di Famiglie Arcobaleno, che ha ricordato a tutti e a tutte cosa significa essere genitori e del ruolo del linguaggio – appunto – nella definizione di realtà vecchie e nuove.

E Roma Pride è stato, quindi, con la sua liturgia, le polemiche a tanto al chilo del giorno dopo, il solito scandalo a senso unico, il perbenismo di una società che si fa piacere storture di ogni sorta e che poi ha paura della libertà di chi scende in piazza così com’è o per come vuole essere in quell’unico giorno dell’anno. Di fatto, in un paese in crisi come il nostro, a cominciare dalla sua stessa tenuta democratica, è un bell’esempio di democrazia, di non violenza, di rivendicazione e di affermazione del sé. Bene così e all’anno prossimo.

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