Da oggi, è il G.O.P. di Donald Trump. Con una vittoria larga in Indiana, oltre il 53 per cento, Trump si aggiudica tutti i delegati in lizza e costringe Ted Cruz all’abbandono. Il senatore del Texas, in un discorso particolarmente emotivo e di fronte ai suoi supporters che urlavano “no, no”, ha detto: “Abbiamo dato tutto. Ma gli elettori hanno scelto un’altra strada”. In campo democratico, Bernie Sanders ha la meglio su Hillary Clinton in uno Stato a larga maggioranza di bianchi. “Il team Clinton pensava che fosse finita. Non è così”, ha detto il senatore del Vermont all’arrivo dei risultati.

Il voto in Indiana era particolarmente atteso, soprattutto in campo repubblicano. Lo Stato è un “winner-take-all”, nel senso che tutti i 57 delegati in palio vanno al vincitore. Qui, sino ad alcuni mesi fa, Ted Cruz aveva una base politica forte, considerata la presenza di larghi settori di social conservatives e religiosi. In pochi mesi, il “ciclone Trump” ha spazzato via tutto. Cruz aveva annunciato che, nel caso di una sconfitta, si sarebbe ritirato, ed è stato così. Ha cercato di evitarla sino all’ultimo, questa sconfitta, mobilitando in Indiana una straordinaria macchina elettorale ed organizzativa, con centinaia di volontari che negli ultimi tre giorni hanno bussato a 70 mila porte e fatto 100 mila telefonate. Non c’è stato, appunto, niente da fare.

La vittoria dà a questo punto a Trump la possibilità di conquistare la maggioranza dei 1237 delegati necessari alla nomination prima di arrivare alla Convention di Cleveland a luglio. E’ esattamente quello che i vertici del partito repubblicano speravano non dovesse realizzarsi. L’obiettivo della leadership – che ha sempre mal tollerato l’irrompere di Trump sulla scena politica – era quello di giocarsi la partita finale in una “contested Convention”, spostando i delegati di Trump su un altro candidato. A questo punto, con la maggioranza assoluta per il tycoon prima di arrivare alla Convention, ogni manovra è ormai naufragare.

Quanto avvenuto in questi mesi ha un carattere storico. Donald Trump sarà il primo candidato, dopo il generale Dwight D. Eisenhower, a rappresentare i repubblicani in un’elezione senza aver mai avuto un incarico pubblico in precedenza. Trump non era nemmeno un “repubblicano registrato” prima dell’aprile 2012. Per anni, le sue simpatie politiche, e milioni di finanziamenti, erano andati ai candidati democratici. Su molte questioni – dall’aborto al controllo delle armi, dal commercio alle tasse – le sue posizioni sono per anni stati antitetiche a quelle del G.O.P (Grand Old Party – “Gran Vecchio Partito”).

Con una retorica chiassosa, abile, che è riuscita ad attirare da subito l’attenzione dei media, Trump ha però prima sorpreso, poi scompaginato, infine costretto alla resa le file del partito repubblicano. Ampiamente sottovalutato all’inizio della campagna, sia dai repubblicani sia dai democratici, considerato poco più di un buffone, Trump ha parlato all’ansia di larghi settori dell’elettorato conservatore, ha fatto leva sul disagio economico, sulle paure alimentate dall’immigrazione, per scalare il G.O.P. e infine vincere. L’unico avversario che a questo punto gli resta è John Kasich, che ha stipulato un accordo di resistenza con Cruz e che non si è presentato in Indiana. In una dichiarazione alla stampa, Kasich ha detto di “rappresentare la vera tradizione repubblicana” e di non volersi ritirare “a meno che un candidato non ottenga i 1237 delegati prima della Convention”.

Trump ha celebrato la vittoria nella sua Tower, sulla Fifth Avenue, a New York, parlando da un podio sistemato di fronte all’ascensore, esattamente il luogo dove, dieci mesi fa, è iniziata la sua improbabile corsa alla Casa Bianca. Rispetto ad occasioni simili nel passato, questa volta Trump è apparso più tranquillo, probabilmente accondiscendente dopo una vittoria così travolgente. Ha riconosciuto che Cruz è stato “un magnifico rivale” (per mesi i due si sono invece insultati pubblicamente, arrivando anche a denunce in tribunale) e ha detto di sapere “che cosa significa essere sbattuto così a terra da una sconfitta”.

Il tycoon ha poi ammesso di essersi trovato nel mezzo “di un anno incredibile” e ha iniziato quell’opera di ricucitura dei rapporti con la leadership repubblicana che gli servirà nei prossimi mesi di campagna elettorale. “Vogliamo portare unità nel partito repubblicano… Unità”, ha detto, rivolgendosi poi alle donne, un segmento di elettorato che, considerati alcuni suoi commenti, non gli è sempre stato favorevole. “Adoro vincere con le donne”, ha spiegato Trump, minimizzando poi i suoi cattivi ratings tra ispanici e afro-americani. “Vinceremo, vinceremo a novembre. E vinceremo alla grande”, ha concluso. Nonostante l’entusiasmo e le promesse, la strada appare tutta in salita per il probabile candidato repubblicano alla Casa Bianca. Il 67 per cento degli americani (sondaggio Washington Post/Abc News) ha un’opinione sfavorevole di Trump.

Per quanto riguarda i democratici, la vittoria di Bernie Sanders, che ha conquistato il 52,5 per cento dei consensi contro il 47,5 di Hillary Clinton, rilancia la tesi che il senatore sta portando avanti ormai da tempo: e cioè che la corsa alla nomination non sia definitivamente chiusa. “Siamo in questa campagna per vincere e combatteremo sino all’ultimo voto – ha detto Sanders -. Non c’è nulla che desideri di più che combattere e vincere contro Trump, uno che non può diventare presidente di questo Paese”. Il buon risultato in Indiana – largamente atteso, tanto che la Clinton aveva praticamente rinunciato a far campagna – anticipa probabili risultati positivi per Sanders in altri Stati a larga maggioranza bianca: la West Virginia, dove si vota il 10 maggio, e l’Oregon, il 17, prima della battaglia finale in California, che assegna il trofeo più ambito di tutta la campagna: 546 delegati. Nonostante le buone prospettive, i numeri continuano a favorire ampiamente la Clinton, che prima del voto in Indiana aveva circa 300 delegati di vantaggio sul senatore.

La resistenza tenace di Sanders ha comunque un significato politico, più che di semplici percentuali. Sta a significare che il suo messaggio politico anti-establishment, di appello a una maggiore giustizia sociale, a una redistribuzione delle risorse economiche, mantiene un forte attrattiva ed è capace di mobilitare larghi settori del voto progressista. Sanders spera di far valere questa attrattiva alla Convention di Philadelphia, a luglio, al momento della scrittura della piattaforma ufficiale del partito. Da parte sua Hillary Clinton continua la sua strada come se la sconfitta in Indiana fosse un episodio atteso e ininfluente. Dopo l’arrivo dei risultati, non ha nemmeno citato Sanders e, rivolgendosi direttamente ai suoi sostenitori, ha chiesto loro di “partecipare alla nostra corsa, se non volete che Trump diventi presidente”.

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