pasolini 675

Tutti intenti a celebrare Pasolini nell’anniversario della sua morte (2 novembre 1975). Non vi è giornale, canale televisivo e radionifico, sito internet e programma, che non si produca, oggi, in una commovente e lacrimevole rievocazione del pensatore Pasolini, l’innocente stritolato dagli ingranaggi terribili del potere.

Perfino in prima serata, nella trasmissione su Rai3 di Fabio Fazio, il tempio dell’anima bella della sinistra politicamente corretta e della gente di una “Certa Kual Kultura” (Stefano Benni), si è ampiamente discusso dell’eroe ucciso per le sue idee. Se ne è parlato, certo, in termini celebrativi, senza mai andare a toccare i cristalli del potere: ed ecco, allora, che, con Morandi e Maraini in studio (chi meglio di loro, del resto, potrebbe parlare del poeta e del pensatore?) si è presentato Pasolini come un calciatore provetto e un po’ stralunato, familiare e simpatico, anche se un po’ sulle sue.

Ovviamente, in questo modo pagliaccesco di affrontare la questione, non si è fatto mai cenno a ciò che Pasolini diceva della televisione e del capitale, del potere e della civiltà dei consumi. Nemmeno un cenno, nemmeno una parola. Almeno, nel famoso dialogo televisivo con Enzo Biagi, a suo tempo, questi problemi si erano in certa misura affrontati. Oggi non è più possibile, tanto sono capillari il dominio mediatico e l’ottundimento programmato delle coscienze.

Perché, in fondo, nel tempo della mediacrazia e dell’integralismo economico-consumistico Pasolini deve essere ricordato così, e dunque, diciamolo, deve essere ucciso una seconda volta: come un giusto e candido, morto quasi per caso, un poeta eccellente spentosi prematuramente; mai – si badi – come lo sferzante critico della società di mercato, di quella civiltà dei consumi che, come magistralmente raffigurato in “Salò” (1975), fa quotidianamente mangiare merda ai suoi sudditi, torturandone le anime ancor prima dei corpi. Non lo si deve mai ricordare come colui che disse apertamente che “l’antifascismo archeologico” e liturgico serve oggi da alibi per legittimare la società dei consumi e il classismo planetario, ossia il nuovo fascismo che si presenta come libertà universale.

Insomma, Pasolini fa oggi tristemente la fine del Che Guevara sulle magliette, effigie trionfante della società contro cui entrambi, pur diversamente, hanno combattuto.

La società di mercato, si sa, è forte proprio perché tutto digerisce, dirottando anche le voci oppositive nei circuiti della mercificazione. Celebra Pasolini e, insieme, lo addomestica e lo normalizza: ce lo restituisce in forme “decaffeinate” e inoffensive, come soprammobile e come monumento, mai come possibile compagno nelle lotte contro il fanatismo economico-consumistico dilagante sotto il cielo. Insomma, lo ricorda encomiandolo e, insieme, lo uccide una seconda volta anestetizzandolo.

È la prassi del potere, in fondo. Ed è anche quello che vorrei chiamare il “complesso di Achille”, in riferimento alle pagine conclusive del primo poema omerico: quelle in cui Priamo si reca al cospetto del principe acheo che ha barbaramente ucciso suo figlio, per pregarlo affinché gli restituisca il corpo di Ettore di modo che possa avere giusta sepoltura. Achille scoppia in lacrime, commosso dal dolore di un padre che gli ricorda il suo: “a queste voci intenerito Achille, membrando il genitor, / proruppe in pianto” (Iliade, XXIV, vv. 643-644).

Il complesso di Achille torna ora a farsi sentire al cospetto di Pasolini: tutti, compreso il potere che l’ha messo a morte, prorompono in lacrime a ricordarlo, a celebrarne la memoria, e evocarne tutti i momenti fuorché quelli che potrebbero tornare a mettere in discussione l’ordine totalitario del nuovo fascismo della civiltà dei consumi.

E intanto il potere è pronto di nuovo a uccidere, silenziando e diffamando, chiunque osi svelare gli arcani del dominio, le leggi del pensiero unico e le forme dell’ingiustizia che non ha smesso di dilagare. E rinsalda ogni giorno il suo dominio, rendendo gli schiavi sempre più indisponibili alla rivolta, sempre più incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano:

“La morte non è

nel non poter comunicare

ma nel non poter più essere compresi”.

(Una disperata vitalità)

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